mercoledì 5 febbraio 2020

Il viaggio in Grecia. Parte 1. Il paradiso riconquistato. Seconda redazione migliorata

Tenos
Il 9 agosto del 1978 salii sul traghetto che dal porto di Andros mi recava lontano dalla greggia dei materialisti integrali. Ero felice di essere solo con la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.
Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti e dei gorghi  solcati dal veicolo marino. Formavano come una strada bianca di sassi in mezzo al verde del prato.
Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare all’isola sacra[1] che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove passare la notte, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.
Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza pensare con retrogusti cattivi ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati  in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la santa luce del cielo.
Dopo due giorni così malamente malvissuti volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati e lasciatili ad asciugare sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del dormitorio, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni sentivo di partecipare a una festa della natura profumata, calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di gioia, di vita. Le cime degli alberi, le teste degli animali, gli occhi umani apparivano sereni e luminosi, piene di promesse e speranze.
Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo  la luce vivace danzare tripudi sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove la accompagnavano battendo le ali gli innumerevoli  cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce dolci le quali moltiplicavano quel dono del cielo che assentiva alla vita.
Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione di Dio alla nostra vista mentale . Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura in un paradiso così ben fatto dall’artista divino. Assaporavo tutti gli umori distillati dagli occhi del sole che vedono tutto e gioivo osservando i colori illuminati e accentuati dalla pienezza del suo splendore.
Ogni tanto mi fermavo per cogliere un fico o un grappolo d’uva dolce offerta, già maturata dal caldo che favorisce la vita.
Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali ricevuti dalle meravigliose donne che avevo già conosciute. Li ho sempre considerati “borse di studio”, come le belle giornate. 
Ringraziavo la madre terra generosa e felice, poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile e la mente serena quanto il cielo era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano al dio sole; ed era una gioia lanciarmi giù per le rapide discese  rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria sulla pelle abbronzata sentendomi  armonizzato con l’opera d’arte dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.
giovanni ghiselli 5 febbraio 2020




[1] Delo

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