lunedì 24 febbraio 2020

Elena. Parte 12. La passeggiata notturna nella “grande foresta”

Finlandia
La passeggiata notturna nella “grande foresta”

La veste le fasciava la vita sottile, i fianchi rotondi, mentre le lasciava scoperte, dal ginocchio in giù, le gambe diritte, tornite, le caviglie snelle, i piedi piccoli su sandali leggeri. Sfiorava appena la terra.
La tunica corta e senza maniche lasciava vedere le candide braccia liscissime, scolpite con grazia prassitelica, mentre le copriva le spalle armoniose e, sopra le mammelle opulente, di forza fidiaca, le orlava il lungo collo sottile, sostegno della piccola testa dai folti capelli corvini che incastonavano il volto minuto, ovale, dai lineamenti fini e dolci ma pieni di luce e fortemente espressivi. Era contenta di me e contenta di sé.
“Lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno” (14).
Ci incamminammo verso la radura con il piccolo lago, raccontando a turno la nostra giornata, passata nell’attesa e nella speranza di incontrarci da qualche parte. Ci ascoltavamo a vicenda, ci guardavamo con occhi che traboccavano simpatia, ammirazione e amore.

Elena mi raccontava della sua terra, delle solitudini boschive dove lei camminava ascoltando le voci di una natura ancora pulita. Mi descriveva con entusiasmo, ma senza enfasi, gli aspetti più belli della Finlandia: i tanti laghi orlati di alberi dove si specchia il sole che nelle estati riempie di luce calda il giorno e fa rosseggiare le notti; mi parlava dei colli iperborei della Lapponia dove si può sciare fino a maggio inoltrato sulla neve che scintilla e sfavilla nella luce già tenace, solo brevemente interrotta dalla rapida, breve oscurità della stagione più bella. E mi parlava della città dei suoi studi, Yväskylä, circondata da boschi, dove in autunno le foglie delle betulle fanno esplodere tutti i colori.
“Io non so come si possa non essere felici nella stagione bella”, disse.
“Io sono felice anche in novembre -replicai. Quando vedo spuntare il grano, sento la resurrezione. Forse perché sono nato in quel mese e benedico il tempo della mia nascita. Sempre, ma soprattutto quando incontro una donna come te. In dicembre poi gioisco per la rinascita del Sol invictus con la crescita della luce che mi rallegra”.
Quella donna benedetta amava la natura e la vita: era della mia razza, della gens cui appartengo per scelta, della stirpe che nonostante le difficoltà e le tante tribolazioni vissute, ho sempre considerato la mia.

Helena mi raccontava anche del suo compagno cui voleva bene come a un fratello, dell’università dove aveva studiato letteratura e storia con serio impegno, del lavoro che faceva con passione poiché amava gli studenti e loro la contraccambiavano vedendola impegnata a educarli. Parlava con semplicità, quella semplicità bella che è complessità risolta, quella prudens simplicitas 15 , la semplicità accorta, competente e precisa che è anche signorilità. Non c’era nessuna affettazione in lei, nessuna posa, niente di falso, stonato o forzato.
Voleva farsi conoscere com’era, in trasparenza. “Ottima è Elena - pensai - ottima e schietta come l’acqua di Pindaro” 16.
Voleva farmi entrare nella sua vita. Io la ascoltavo con tutto l’interesse di chi vuole diventare partecipe della storia raccontata, della vita di chi la racconta, e non la interrompevo se non per rivolgerle qualche domanda e approfondire la conoscenza. Quando venne il mio turno di farmi conoscere e riconoscere, attraverso le parole, le parlai della nostra terra varia e ricca di bellezza antica eppure sempre viva e recente, del mio lavoro che mi piaceva, siccome provavo interesse per l’educazione, per i miei allievi e per le lettere.
Nell’educazione, o paideia che dire si voglia, credevo già allora, sebbene avessi ancora pochi strumenti per impartirla: in quel tempo non pensavo che nom c’è forza educativa in grado di modificare la nostra sostanza, di cambiare la quidditas di ciascuno, quello che essenzialmente è. Più avanti nel tempo, i critici del metodo mio avrebbero detto che miglioravo sì i migliori, ma, nello stesso tempo, peggioravo i peggiori. Infatti provocavo l’epifania del carattere di ciascuno studente, per farlo diventare quello che è.
La mia coscienza di educatore all’epoca non era pienamente formata.
Intanto però procedevo nel tentativo di affascinare la finnica bella e fine, di raffinata semplicità.
L’amore mi rendeva eloquente (17).
Aggiunsi che insegnavo le frasi belle degli scrittori bravi. Questo forse non era una forma di docenza strutturale, ma serviva a raffinare il senso estetico degli alunni, del resto non sempre il sapere è sapienza; quindi facevo conoscere le idee di autori anche discordanti tra loro, in modo da stimolare il pensiero critico dei miei ragazzi attraverso una logica aperta al contrasto, eppure dilemmatica piuttosto che hegeliana.
Presentavo i termini come divergenti, non compositivi e convergenti in una sintesi. I ragazzi potevano scegliere senza coazioni.
Li invogliavo comunque a scegliere il bello invece del brutto, il bene invece del male, il coraggio invece della viltà, l’energica ascesi, l’esercizio impegnativo della mente e del corpo, piuttosto che la pigrizia gottosa, l’obesità torpida e l’indolenza inconcludente e così via.
 Il bene, l’ordine del mondo, la vittoria del cosmo sul caos li mostravo anche in alcune immagini artistiche, particolarmente nel frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia, e nei quadri di Piero della Francesca che conoscevo fin da bambino poiché il nonno materno, la mamma e le zie, nati e cresciuti a Borgo Sansepolcro, il paese nativo del pittore rinascimentale, me ne parlavano spesso e mi portarono a vederlo e ad ammirarlo molto per tempo.
Nei quadri di Piero avevo visto immagini del bello non artefatto e del bene non sdilinquito. Anche lei, Elena, rappresentava ai miei occhi il bello con semplicità e il bene senza fiacchezza.

“Che cosa è il bene per te?” mi domandò a bruciapelo. Andava sempre in medias res. Elena mi ha insegnato un metodo, il suo.

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14 Leopardi, A Silvia, 26 -27.
15 Cfr. Marziale, X, 47, 7.
16 a[riston me; n u{dwr, Olimpica I, 1.
17 Nel magister Ovidio la cupido è un elemento della ragione: il maestro del lusus erotico consiglia al corteggiatore di potenziare la facondia con la forza del desiderio: è il "rem tene verba sequentur "di Catone trasferito in campo amoroso: "fac tantum cupias, sponte disertus eris " (Ars amatoria, I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza sforzo. Tereo che arde di passione per la cognata Filomela è reso eloquente dallo stesso ardore amoroso: "Facundum faciebat amor " (Metamorfosi, VI, 469).

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