mercoledì 12 febbraio 2020

Elena. Parte 4. La strategia dell’attesa

La strategia dell’attesa

Mentre pregavo, quasi a mani giunte, guardavo la donna tutta umana con aria seria e con il fiato sospeso, dal tavolo non poco chiassoso degli Italiani a quello sospiratissimo delle Finlandesi: Helena, l’auriga della mia anima, parlava pacatamente con un paio di sue connazionali sbiadite. Notai che non fumava. Era perfetta, era la mia dea, il completamento di me, spezzone di essere umano, la contromarca della mia vita era lei. Il suo volto adunava più luce di quelli di tutte le altre giovani femmine umane lì presenti e vive. Dovevo trovare parole tanto forti da farle sentire per me e vedere in me in tutto me il bene e il bello che per lei sentivo e in lei vedevo. Un parlare che le rivelasse tutto il pathos e il logos che lei stessa mi aveva infuso nell’anima.

 Mi scusai con gli amici storici che nell’estate del ’71 erano tutti a Debrecen. Andai a controllare la forma mia in uno specchio dei gabinetti. Non ero male. Fisicamente mi trovavo nella condizione migliore: snello, abbronzato, con i capelli bruni bruni corti, ancora un poco militareschi che tuttavia mi donavano; portavo con disinvoltura le lenti a contatto, e avevo un vestito azzurro che si intonava bene con il colore assai scuro della mia pelle da etrusco adusto dal Sole, il dio che mai mi lascia sbiadire. Anche in caserma trovavo il modo di prendere il suo colore santo. Avevo l’incarnato e le fattezze corporee dalla mamma mia, Luisa Martelli, una ragazza bella, speciale, di Borgo Sansepolcro, il paese di Piero, il dipintore della Resurrezione di Cristo, della Madonna del parto[1], e di altro.
Gli occhi azzurri della madre mia no, purtroppo, non li avevo presi, ma andava bene lo stesso.
Mi piacevo abbastanza. Non ero male per niente: infatti passando in mezzo ai tavoli per andare a specchiarmi, avevo notato che diverse fanciulle mi guardavano con simpatia, e questa è la prova migliore, l’unica, che sei in buona forma e puoi piacere[2]. Ringraziai la mamma mia benedetta. Andava bene così. Con gli occhi azzurri magari mi sarei montato la testa e avrei peccato di u{bri~. Una volta la mamma mi disse che se avessi preso il suo colore di occhi e la statura di mio padre sarei stato bello come Alain Delon. Risposi che mi piacevo com’ero e non mi sarei cambiato con lui.
“Basta che tu sia contento te”, fece lei nella sua bella lingua aretina.
Io non volevo iniziare una vita diversa ma proseguire nel percorso in salita della mia.
Mi confortai: la bella donna non mi aveva scartato per via dell’aspetto, altrimenti mi avrebbe scansato subito e completamente, come stava facendo con alcuni giovanotti petulanti che la invitavano a ballare; no, Helena aveva provato noia della mia parola banale, priva di qualsiasi bellezza dal punto di vista del conoscibile, anche se il visibile to; oJratovn, non era male. Con l’eloquio vuoto di idee e privo di sentimenti avevo aggiunto squallore al silenzio. Come fa la gente comune, e lei, come la mamma mia, non era una persona comune. Io nemmeno. Dunque potevo trovare un rimedio. Una donna siffatta esigeva, e meritava, il meglio di me. Motivo di più per amarla. Era un’impresa ardua, del resto ogni cosa difficile ributta l’uomo imbelle. E viceversa.
Mi venne in mente Pindaro che nell’Olimpica I racconta l’impresa di Pelope il quale per conquistare Ippodamia deve battere, in una gara furiosa su un cocchio tirato da cavalli, il sanguinario padre di lei, Enomao[3], assassino dei pretendenti ogni volta sconfitti. L’eroe eponimo del Peloponneso, la notte prima dell’agone rischioso pensa, e prega così il dio Poseidone:
“Dato che è necessario morire, perché uno dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima seduto nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? Ma questa
gara giacerà sotto di me: tu dammi propizio l'evento"[4].
Io non potevo passare le serate a guardare partite di calcio o giocando a carte, aspetti deplorevoli della vita umana secondo il demone mio.
Vivevo cercando amore e bellezza.
Per vincere la mia gara dunque, per evitare una sconcia disfatta, dovevo trovare il modo di farmi ascoltare con interesse in un secondo incontro con la bella donna cosciente del bello, dovevo piacerle tanto da farla giacere nuda con me nudo in un letto, cosa che è il solo rimedio al dolore della carenza amorosa. Dovevo espugnarla.
Era dunque necessario preparare una conversazione più intensa, più densa e pastosa; un logos più profondo e più alto, un pathos pieno di vita, parole e pensieri sublimi, com’era lei nella mia valutazione, forse eccessiva ma atta a stimolare tutte le mie energie migliori. I miei slanci amorosi dovevano avere il fascino di figure retoriche geniali. un fraseggiare di brevità, di bellezza e di forza; con meno di tanto non potevo farcela. Dovevo quel successo al prosieguo della mia esistenza terrena.
“E il vincitore per il resto della vita
ha una dolce serenità”[5], mormorai.

Poi tornai al tavolo degli Italiani, non lontano da quello dei Finnici.

“Siamo alle solite Gianni, punti le finniche”? mi domandò il povero Bruno Pera, già sacro alla morte non tanto lontana. Una sorte molto amara degna di riflessioni dolorose, anche se il personaggio non mi era del tutto simpatico.
“Sì, certo - risposi con disappunto - perché, a te fanno schifo?”
“No - disse - ma mi sembri ripetitivo, fissato, e anche un poco razzista”.
Era un rivale, un donnaiolo del resto meno attento di me alla qualità.
Lui non cercava l’identità nell’amore: aveva da tempo una fidanzata in Italia che lo raggiunse pure.
“Questo è l’anno della degradazione!”, gridava ogni tanto, facendo anche gesti bizzarri, chissà perché.

Digressione brevissima in memoria di Bruno, il ragazzo romano morto ante diem.
Forse Apollo, o la Pizia seduta sull’ombelico del mondo, gli avevano sussurrato il destino, e ne sentiva la pala spietata già vicina ad arrotarlo, a travolgerlo, e gli dava voce, con macabra preveggenza.
Del resto, povero Bruno, hai evitato la degradazione della vecchiaia che ora mi incalza assai da vicino. Pensa che mi sono tagliato i baffi nerissimi che avevo allora e mi stavano bene, come i tuoi a te. Bianchi facevano schifo alle donne giovani che ci piacciono tanto. A te non sono venuti. Non gliene hai dato tempo. Finché sei stato al mondo, piacevi alle donne. Non meno di me, lo riconosco. Eri un rivale degno. Del resto piacevamo a tipi diversi e ci piacevano donne diverse: mai ci siamo scontrati.
Anzi, ricordo che quell’estate, la nostra penultima estate comune, notasti che io, come te, mantenevo la linea, mentre Claudio era diventato “un cesso d’omo”.
Con i capelli me la cavo ancora: ho solo qualche filo bianco. Spero che tengano duro, i capelli neri e il tenue, e duri ancora del tempo delicatissimo filo della vita.
Atropo ha spezzato il tuo troppo presto. Mi dispiace Bruno, mi dispiace molto.

Claudio disse soltanto: “bella sì, ma non guzza mica”.
“Te lo faccio vedere io”, pensai, ma non lo dissi. Sarebbe stata ybris infatti replicare con tanta iattanza.
Ripresi a guardare la finnica bella e fine, con sguardo un poco obliquo per non darlo a vedere. L’avevo presa di mira e non volevo che se ne accorgesse.
 Parlava di rado, senza bere alcolici, sempre senza fumare e senza scomporsi. Consideravo il non fumare un predicato di nobiltà. Allora era raro, come ora non avere il telefonino.
La rarità scandalizza gli idioti, i servi più tenaci e brutali di ciascuna moda. L’originalità, anche se non affettata, dà fastidio a costoro.
Vedevo Helena come un’immagine già dipinta dentro di me.
In seguito seppi che non beveva e non fumava anche perché sospettava di essere incinta. Forse per lo stesso motivo mi aveva concesso così poco tempo, e agli altri corteggiatori ancora di meno. Ma in quel momento non lo sapevo, e avevo bisogno di attribuirle ogni virtù, in modo che se mi avesse dato il suo assenso, avrei potuto farne un idolo, o almeno un modello da imitare per precisare la mia identità e rendere migliore me stesso.
La guardavo senza ascoltare i miei amici e impiegavo tutte le energie della mente per capire come potessi arrivare a lei di nuovo; questa volta però andandole a genio. Ne avevo bisogno. Non potevo fallire. Per crescere, per diventare un uomo, dovevo succhiare in senso fisico e metafisico le sue ubertose mammelle[6] che, solo a guardarle, diffondevano meravigliosa soavità e una strana consolazione.
La bella donna sembrava piuttosto spaesata e disorientata in quell’ambiente di ragazzi, di sposati e di vecchi, un luogo nuovo per lei, mentre io vi avevo già raccolto esperienze di amicizia e di sesso, se non proprio di amore, e avevo ricordi importanti. Potevo fruire di un certo vantaggio.
Ripresi a incoraggiarmi mentalmente: “Dai Gianni ché ce la puoi fare. Dai, che tu non sei male; anzi sei l’unico della sua levatura. Pensa agli altri italiani. Claudio, a parte lo stomacone, non è brutto, è colto, e non è stupido, ma è un goliardone che fa del casino; la sua insensibilità pachidermica di certo non si confà a quella femmina umana. Luigino è un raffinato, ma, per fortuna, è un cinedo tra i più sdilinquiti: lo chiamiamo “Natica svelta” senza sua offesa; Danilo beve e rutta, talora brancola ebbro, e sospira per gli alcolici amati, se li sogna anche di notte”.

Danilo. Digressione breve
Ricordai un episodio, per farmi venire del buonumore.
Una mattina l’ubriacone professionista era steso nel letto, a pancia in su, a bocca aperta. Sembrava che non respirasse. Non capivo se era morto oppure, come al solito, ebbro. A un tratto si svegliò piangendo e gridando: Dioniso gli aveva riempito la mente di furore mandandogli in sogno la visione di una bottiglia di Tocai caduta a terra e rotta. Raccontò, tra le lacrime, che aveva visto il liquido prezioso e amato scorrere e sparire bevuto dalla terra permeabile e ghiotta. Il meschino non si saziava di gemiti e lamenti.
“E’ il vino, è il vino che manca”, ripeteva sconsolato. “Dovevo berlo subito!”
“Se vuoi, vado a strizzare dell’uva per te”, cercai di consolarlo
“Sì, vai di corsa, a spremere l’anima dell’uva-rispose l’amico excitus calore quo consuevit vini causando inopiam[1]- perché se non bevo entro quattro minuti almeno un goccio, divento pazzo!”. E invocava Dioniso con ululati lunghi, colmi di pena.
“Più di così?” pensai, senza dirglielo. E corsi al bar per comprargli una bottiglia.
Una volta gli diedi il consiglio di non dare troppo a vedere il suo vizio: a Padova un bidello dell’Università, cui avevo ichiesto di lui, mi aveva detto che quella mattina non l’aveva visto: probabilmente era andato nell’osteria del  Liviano a bere un goccetto. Il custode aveva parlato con un tono tra lo scherzoso e il biasimevole.
L’amico mi guardò trasecolato, emise un muggito, poi disse: “ma quale vizio? Di quale bidello e custode vai cianciando, tu fighetto da Pesaro che giri con una macchina hitleriana!
Si chiama Giovanni, è un mio amico, e tante volte andiamo a bere un’ombretta in compagnia! Niente di male!”.
Replicai solo dicendo: “in effetti che male c’è? anche io mi chiamo Giovanni!”, poi tacqui, siccome le sue parole mi parvero ebbre.
Ricordavo questi episodi ridendo tra me, senza pietà per l’amico che vorrà perdonarmi.

Poi tornai a valutare il presente: “Fulvio, l’amico più caro, ha adocchiato quella studentessa italiana arrogante, un inganno mascherato, per ora, con l’intento malsano di farne la sua sposa e mettersela in casa. L’apparenza violenta la verità, e il risveglio per l’amico infatuato sarà molto amaro.
 Quando quella ragazzotta graziosa e prepotente sarà priva di maschera e si sarà rivelata quale una delle tre Erinni[7], allora non gli piacerà più, e le loro nozze, se saranno inopportunamente avvenute, avranno un sapore cattivo. Quindi lo sposo pentito andrà a piangere sulla riva del mare, come Odisseo a Ogigia, quando gli venne a noia Calipso.
Ermes, mandato da Atena: "lo trovò seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si struggeva la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché non gli piaceva più la ninfa, ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfh "[8]. Un esempio di semplicità, verità e spontaneità. Una spiegazione di quattro parole. Senza chiacchiere aggiunte.

Fulvio. Altra digressione breve
Qualche anno più tardi infatti Fulvio mi confessò che andava a piangere sul molo del porto di Chioggia invocando: “Debrecen, dove sei, e voi amici miei, dove siete?”
 Rimpiangeva il tempo perduto.
Ma nell’agosto del ’71, istigato da lei, partì dall’Ungheria senza salutare nessuno e per due anni non si fece vedere.
All’epoca Fulvio non voleva figurare nel numero degli scapoli malfamati e si assoggettò all’amore di una forsennata, come il sire Agamennone con l’invasata Cassandra[9].
“Eh sì, eh - diceva ogni tanto - a una certa età, la nostra, uno deve sposarsi”.
“Davvero?” facevo io, e procedevo sulla mia strada peccaminosa, senza temere che il fuoco del cielo scendesse sulla mia testa di peccatore incallito. Certamente non il fuoco di Sodoma sterminatore degli uomini-donna.
Del resto ce ne sono ancora tanti scampati a quel fuoco. Per fortuna. Più ce ne sono, più noi donnaioli siamo contenti, per via della minore concorrenza.

Ma torniamo a quella sera di luglio e al pensiero che passava in rassegna i possibili proci di Helena. Un copioso drappello era radunato in quel luogo.
“Bruno, il romano, è belloccio, non posso negarlo, e fisicamente potrebbe anche piacerle, ma grazie a Dio, non sa parlare l’inglese ed è troppo estroverso, incline alla fanfaronata anche cafona: per una donna siffatta colui non è abbastanza distinto, Helena lo riterrebbe un ciarlatano da fiera; Alfredo non può piacerle: è troppo depresso e insicuro, in preda a un’indolenza agitata; Mario, il napoletano è grasso assai, e non poco gozzuto. Per giustificarsi dice “ho preso da mammà”, ma di fatto, in rebus ipsis, è più incline al cibo che a qualunque altra cosa; la mente intronata di Fausto non riesce a connettere verbo con verbo. Un qualche dio gli ha gettato pensieri confusi nel petto.
Tristano corteggia le donne con un’aria da seminarista. Così becca solo le vecchie[11], a volte anche laide.
Ezio ci prova sempre in maniera claunesca: quando va da ciascuna a chiedere: “Akarsz táncolni, akarsz táncolni? ”[12], strizza l’occhio furbetto e compie una ridicola piroetta da ballerino. Quindi il mattacchione si ferma e parla, a lungo, con l’eloquenza delle marionette. La sua mente non sa produrre altro.
Non ha molto senno sotto la zazzera. Le corteggiate talora gli ridono in faccia”.
Esageravo così, fluttuando tra l’iperbole e il paradosso, facendo mentalmente caricature spietate anche degli amici per farmi coraggio.
“I maschi stranieri - pensavo anche, con presunzione tipica del gallismo nostrano - non contano: non sono tanto interessati alle femmine, e comunque non sono arsi dal fuoco sacro di Eros, come te, vecchio mio. Alcuni sono già disfatti dall’alcol”.
A dire il vero, una volta un ragazzo finlandese mi aveva detto che si eccitava soprattutto quando vedeva scaricare da un camion casse di liquidi alcolici.
“Dio ti mantenga se tu ti contenti”, pensai
Naturalmente fece amicizia con Danilo, un sodalizio celebrato tre volte al giorno con sorsate rapide e colossali.
Forse anche per questa inclinazione un poco perversa dei loro maschi avevo messo nel mirino in primis le femmine finniche tra le altre straniere. Le italiane non erano ancora abbastanza emancipate dal perbenismo sessuale. In confronto al cigno cui assimilavo Helena, le connazionali mi parevano oche stridule e mal pennute.
Naturalmente esageravo.

Altra digressione breve: la Moraccia di Modena e Claudio.
Una sera una di loro, una Modenese detta “Moraccia”, si affacciò a una finestra dicendo che lei e le sue amiche dell’Università di Bologna a Debrecen si annoiavano a morte. All’epoca era fidanzata con un giovane canuto che un giorno venne a prenderla, e in seguito sarebbe diventato un ciarlatano famoso. Noi lo canzonavamo per la chioma precocemente bianca, sempre molto curata, il cui albore spiccava vieppiù in contrasto con i capelli nerissimi e un poco appiccicosi di quella sua timoratissima fidanzata.
Claudio che tra le donne disponibili beccava di tutto, dal prato posto tra i collegi gridò la sua litania arcidiabolica: “per forza, perché non guzzate!”, e la moraccia strapazzata si ritirò con sdegno, non senza gridare con urlo da stridula strige cui vengano strappate le viscere: “maleducato!”.
“Sì, però io guzzo e non mi annoio”, replicò il donnaiolo ancora impunito.
E aggiunse: "casta est quam nemo rogavit”[13].
Claudio beccava qualsiasi donna non facesse troppe storie. Una volta una quarantenne, all’epoca una mezza vecchia per noi, gli chiese di aspettare un poco dicendogli: “a fiuk nem tudnak várni”, i ragazzi non sanno aspettare.
Stavano facendo del petting appoggiati al muro di un collegio, o a un albero, al buio.
Il dispettoso drudo se ne andò con un ghigno beffardo, mormorando: ”"fuge rustice longe/hinc Pudor”[14] e lasciandola con le mutande a metà delle cosce. Qul  donnaiolo non era certo raffinato, ma non era nemmeno incolto.
Le urla e le maledizioni della donna abbandonata risuonarono per tutto il campus universitario, alle due della notte. E noi ci facemmo due grasse risate fino all’alba.

Quella sera cruciale io continuavo a pensare: “Helena esige uno stile non pagliaccesco, vacillante o rumoroso, ma razionale, dolce e sicuro. Perché quella donna è bella e ordinata. Una chiara fusione di eros e logos.
Gianni Ghiselli, in questa confusione, ci sei solo tu di adatto, di congeniale a lei. Ragiona e ringrazia Dio, chiunque egli sia[15]. Ci sei solo tu. Altrimenti avrebbe accettato di ballare con altri. Invece è ancora seduta là. Anzi, ora ti ha perfino guardato. Ciao, sapessi quanto ti amo, profumata creatura, tesoro dagli aromi soavi!
Adesso calma, Ghiselli, però: se agisci con senno, se non perdi la testa o le lenti a contatto, se non ti ubriachi, non ti lasci andare a mangiare con appetito disonesto, non ti ingaglioffi andando a fare casino con gli altri, se non ti accontenti di un baccanale corrotto con una cialtrona qualunque, questa donna spirituale, senza però dimenticarne la carne, è destinata a te. E’ iscritta nel tuo destino. Lei può correggere le rotazioni della tua testa e armonizzarle con il giro delle stagioni, degli astri, del cosmo. Magnifica, magnifica. Splendore della sera di festa. Questo dì è solenne e verrà inciso nelle tavole degli Annali della tua vita. Elena è figura futuri:  prefigura la tua redenzione. Vedrai!
 Stai calmo adesso però. Per oggi non invitarla più. Sì, ha accettato di ballare con te e ora ti ha anche guardato, per carità, non dico di no, ma non invitarla. Dai retta. Osservala da lungi, con dolce prospettiva[2].
Raccogli intanto altra energia per mostrarla a lei con parole belle significative di pensieri profondi, classicamente,  senza agitazione!
Devi evitare i luoghi comuni cari agli imbecilli, devi impiegare inopinata verba e callidae iuncturae come ti hanno insegnato Orazio e Frontone.
Sì, d’accordo è la tua femmina, ti è destinata ab aeterno, è della tua levatura, è cosmica, è una sintesi di natura e di spirito, è quello che ci vuole per te, è la meta della tua ricerca nostalgica dell incontro fatale indispensabile a diventare quello che sei, stanne certo, coglierai il bersaglio tanto bramato: le sue mammelle ti nutriranno lo spirito e non solo quello, vedrai. Ma ora non fare l’idiota: adesso non devi invitarla con suppliche vischiose e inutili, da perfetto imbecille. La voglia è grande, quasi cannibalesca direi, ma la tua forza attuale è quella di un pigmeo affamato. Non tirare avanti rizzando la coda impudico come il cavallo nero della biga di Platone[16]. Aspetta la luce di domani: il sole, la facies di Dio rivolta a noi ti mostrerà la via. Il metodo giusto.

giovanni ghiselli

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[1] Questa veramente si trova a Monterchi, una quindicina di chilometri da Sansepolcro.
[2] Non la pensa così Giocasta nelle Fenicie di Euripide. La donna domanda al figlio Eteocle: “pensi che essere guardati sia segno di valore? (periblevpesqai timiovn;) Secondo lei è kenovn, cosa vuota (v. 551.
[3] Il momento che precede la partenza è raffigurato dalle sculture del frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia.
[4] Pindaro, Olimpica I, vv. 83-84. Li ho tradotti quasi letteralmente, come faccio quasi sempre.
[5] Pindaro, Olimpica I, vv. 97-98, tradotti letteralmente.
[6] Cfr. il Faust I di Goethe: “Natura illimitata, dove stringerti? Voi seni, dove? Voi, sorgenti di ogni vita da cui la Terra e il Cielo pendono, cui questo petto esausto tende” (Notte) .
[7] Megera, probabilmente. Le altre due sono Aletto e Tisifone.
[8] Odissea V, 151-153.
[9] Cfr. Euripide, Troiane, 414-415.
[11] Ma, sia detto a suo onore, senza bisogno del Viagra che in quel tempo non c’era.
[12] Vuoi ballare, vuoi ballare?
[13] (Ovidio, Amores I, 8, 44) , casta è quella cui nessuno l’ha chiesta
[14] Ovidio, Ars I, 605, fuggi lontano di qui, rozzo Pudore
[15] Cfr. Eschilo, Agamennone 160 e le Troiane di Euripide, 885.
[16] Cfr. Fedro, 254 d

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