martedì 25 febbraio 2020

Elena. Parte 14. Il bosco sconsacrato

Filippo Cannata, Luce, Ombra, Penombra, Buio
Il bosco sconsacrato

La mattina del 26 luglio del 1971, un lunedì, mi svegliai contento perché ero innamorato della Sarjantola e le avevo insegnato ad amarmi. “Ottimo risultato pedagogico, e pure erotico, quasi eroico una vera aristìa dolo tanta insensatezza amorosa”, pensavo, speravo, ne ero quasi sicuro. “Il più importante successo della mia vita. Darà nuova forza alla mia identità. L’amore farà spuntare le ali. A me e a lei: “quid agi oporteat bonis successibus instruendi erimus”1.
Volevo vederla, ma non avevamo preso un accordo preciso.
Alle 11,30 dopo le lezioni, invece di andare a correre, sedetti sul prato in mezzo ai nostri collegi, sperando che Elena si affacciasse presto alla finestra di camera sua, come la sera prima, oppure, apparsa dalla parte dell’Università, quella orientale da dove tante ore prima era spuntato il sole, venisse vicino a me. Era un giorno di estate piena, ancora trionfante: la grande luce faceva brillare e rallegrava le pareti degli edifici, colorava le cose, la pelle e i capelli delle persone, la scorza e le foglie degli alberi, rendeva luminose perfino le ombre sul prato, dense e raccolte a quell’ora.
Il mondo era la rappresentazione della mia gioia nell’attesa della creatura che amavo e quasi sicuramente mi amava.

A mezzogiorno già passato però, la bella donna biancovestita non si era  fatta vedere ancora. Eppure da quell’osservatorio cruciale in quanto posto all’incrocio dei nostri cammini, e dei nostri destini, avevo potuto osservare tutte le uscite, le entrate, i movimenti delle persone.
Mi domandavo: “l’ho forse offesa riaccompagnandola anzi tempo in collegio dove oltretutto ero andato a prenderla tardi?
Oppure la bella donna, invero non proprio assurdamente, ha pensato che il nostro amore è assurdo perché lei aspetta un figlio dal suo fidanzato e noi due, per giunta, abitiamo distanti duemila e cinquecento chilometri l’uno dall’altro?
Oppure il caldo di questa giornata, meraviglioso per me, ma forse eccessivo per tale creatura, cresciuta tra i boschi e i laghi iperborei, l’ha fatta fuggire e tornare nell’ultima Thule da dove era partita una settimana fa, improvvida dell’incontro fallace? E io che la voglio prendere, sono ingenuo come un fanciullo che insegue un uccello che vola2, o cerca di afferrare con le mani un pesce che sguscia?” Questa ipotesi mi parve orrenda.
Agli amici e conoscenti, che andavano e venivano, a ognuno della brigata mia e a certuni di altre combriccole, domandavo se Elena si fosse vista, ma Fulvio, scusandosi, disse di no, Stefania non ci aveva fatto caso, Claudio, Alfredo, Bruno, Tristano neanche. Danilo giurò, sulla bottiglia di palinka che teneva in mano, di non averla vista, quindi aggiunse: “il liquore che sto per bere non è di questo mondo: è Dio in persona che innalza l’anima mia al di sopra di ogni meschinità”. Gli roteavano gli occhi come al leone che divora la preda.
La garrula fama, la chiacchiera curiosa e linguacciuta non dava notizia di lei.
Il cynicus parmensis anzi proferì parole di malaugurio: “Chi, la cancerogena? No, non l’ho vista”. Quindi aggiunse: “Tanto non guzza! Piantala con questo tu vizio assurdo da sordido anacoreta!”.
L’accento era emiliano, ma tutt’altro che bonacciona la voce di quel profetismo da iena, il gesto irridente e minaccioso. “Lo spirito diabolico che sempre nega, prima o poi verrà sbugiardato – pensai - se non oggi domani o domani l’altro. Al più tardi, nel giorno del Giudizio: “Iudex ergo cum sedebit-quidquid latet apparebit-nil inultum remanebit”3.

Il tono malignamente ominoso di quel sinistro messaggero di un brutto destino quella volta mi turbò. Aveva cercato di trascinare nel suo abisso, con un ghigno beffardo, un miracolo, una corona della creazione, una creatura che ravvivava la stessa vita.
“Di bocche senza freno, di follia senza misura, il termine è sventura”4, gli ricordai mentre al dolore si aggiungeva dolore.
A mezzogiorno e mezzo mi invase il terrore che la misteriosa creatura fosse morta, che i suoi occhi dalle vivaci pupille veggenti si stessero già disfacendo in polvere, oppure, nauseata dal caldo e da me, fosse tornata in Finlandia nel luogo da dove si era allontanata quando, benedetta, si incinse di un altro uomo, un finnico molto più grande, più grosso e più facoltoso di me. Temevo qualche metamorfosi negativa.
Infatti l’angoscia cominciò a deformare tutte le cose che divennero le immagini della mia pena: visioni simili a larve di sogni opprimenti.
Nella mia testa malignamente incantata le immagini strane subivano un ribaltamento semantico: attribuivo loro significati stravolti, eccessivi, mostruosi.
Lo stesso caldo che ho sempre adorato mi stava arrostendo nella graticola tremenda di Venere5 e sollevava un fumo nauseante che sapeva di carne bruciata. Cupi vapori arroventavano l’aria.
Vedevo invecchiare rapidamente tutto, come se ogni istante, passando, facesse precipitare nella morte scoscesa i giorni di quell’estate già lieta, interi anni della brevissima vita dell’uomo e una serie grande di secoli: l’erba senza colore, infestata da serpi velenose, si disseccava e piegava sospinta e inaridita da un fiato maligno, i fiori si riempivano di ombre come quelli dell’Ade, le foglie ingiallivano e si accartocciavano, i mattoni dei nostri collegi si sbriciolavano, gli alberi si seccavano, si contorcevano, le loro viscere nodose partorivano ratti raccapriccianti, stagni mefitici esalavano miasmi immondi, gli amici contaminati diventavano orrendi e penosi: vedevo facce e teste svigorite, vane immagini del mondo dei morti, senza sguardo, senza capelli: alcuni erano già teschi mozzi strappati da streghe a denti di belve6.
Vidi anche una figura offuscata che mi veniva avanti con le membra a pezzi. Forse era lei. O ero io stesso, tornato deforme.

Potevo fare la fine del martire sulla croce dell’amore non contraccambiato.
Una preghiera nera formulata da spiriti maligni aveva chiesto e ottenuto il ritorno del Caos dove volteggiano i mostri.
Nel prato della sventura tutto si era sciolto dal vincolo dell’armonia: giravano teste senza collo, facce prive di occhi, braccia senza spalle né mani (Cfr. Empedocle. Poema fisico)
Perfino il sole, il primo fra tutti gli dèi, la luce più bella apparsa sul grande bosco di Debrecen, perdeva i suoi raggi vitali, e si scoloriva, spandeva un lume fioco e afflitto, fino a sparire annientato da una densa caligine afosa.
Senza Elena il sole non era più il sole. L’ombra non stava più dentro se stessa: dilagava dappertutto e offuscava la bellezza del prato, del bosco, perfino quella delle ragazze fiorenti, il meglio del meglio nell’intero cosmo.
Il verso, altre volte gradito, delle tortore mi sembrava il lamentoso singhiozzo ripetuto, ossessivo, di un uomo morente e non rassegnato a lasciare la vita. Il cielo prendeva un aspetto deforme spariva.
Oscene cornacchie profetizzavano l’avverarsi di qualche remoto sfacelo, mai visto prima dalla terra e dal cielo, ripetendo continuamente il loro lamentevole kár kár 7.



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1 Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri XXXI, 21, 5, 6,
Impareremo dai buoni successi che cosa si debba fare.
2 Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv. 387 e sgg.) leggiamo, e impariamo: "Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente, abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che, sfregata, appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello che vola".
3 Quando il Giudice sarà seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente rimarrà invendicato. Sono versi del Dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo)
4 Cfr. Euripide, Baccanti, 386-387: “ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t j afrosuvna~-to; tevlo~ dustuciva”.
5 Cfr. Properzio: Correptus saevo Veneris torrebar aeno, /vinctus eram versas in mea terga manus. / " (III, 24, 13-14) , afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.
6 Cfr. Apuleio, Asino d’oro II, 17 extorta dentibus ferarum trunca calvaria.
7 Kár in ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia dell’uomo (Az ember tragediája, 1826) ha scritto che il campo della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I (1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.

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