sabato 8 febbraio 2020

Il viaggio in Grecia. Parte 2. La piana di Maratona. Il toro di Teseo. I tre ceffi feroci. Agamennone e Ifigenia

Alfred Gilbert, Eros
La mattina seguente mi imbarcai per l’isola sacra dove aprirono gli occhi il dio luminoso dall’infallibile arco d’argento e sua sorella, la dea cacciatrice dalle fiaccole ardenti. Il traghetto solcava il mare e l’aria mattutina dai tenui colori: i raggi del sole obliqui, leggeri, scuotevano graziosamente le chiome d’oro ancora bagnate e preparavano i meridiani tripudi alzando ritmicamente le caviglie sottili sui bianchi fiocchi di spuma che la chiglia metallica sollevava dal cupo della pianura marina, come un aratro fa uscire dalla crosta terrestre nere zolle a imbiancarsi di luce.
Quando fui sbarcato nell’isola santa, pregai i divini fratelli Artemide e Apollo di farmi avanzare con passo sicuro verso la pienezza della vita e il compimento del mio destino.
Dopo avere girato la piccola isola devota mente a piedi, nel pomeriggio mi imbarcai verso l’Attica verde di olivi. Il battello però fece una sosta pur troppo lunga a Mykonos. Rimasi quasi assordato da suoni rumorosi e da striduli strepiti di voci auspicanti piaceri carnali osceni per dare sfogo a mal protese passioni. I bottegai beati approfittavano di tale masnada gonfiando i prezzi della bigiotteria esposta dovunque e delle bevande alcoliche tracannate senza soste da tale turba.
Verso mezzanotte il battello finalmente partì. Arrivò a Rafina sulla costa nord orientale dell’Attica verso le tre. La notte era ancora fonda: dormivano i variopinti uccelli del cielo, gli animali terrestri e i muti pesci del mare. Avevo sonno anche io ma a quell’ora non era dato trovare una stanza né un materasso su una terrazza sotto la luce della dea casta: Diana o Iside come la chiamavano gli Egizi ricchi di antica dottrina[1]. Sicché mi imposi di volere un’azione che avesse qualche cosa di eroico. Dovevo meritare il mio fato. Aspettai che l’Aurora avesse iniziato ad accarezzate le cime dei monti con le sue dita rosee. Quindi montai la bicicletta fidata e la diressi contro il vento che spirava con forza dalla combattuta piana di Maratona: pensavo alla lotta degli Ateniesi contro il barbaro stuolo invasore e anche allo scontro di Teseo, magnanimo e pur seduttore di femmine umane, la lotta vincente con il toro feroce: i soffi contrari, simili a sbuffi di bestia infuriata, offrivano esca al ricordo. La lotta tra il mostro e l’eroe mi saltò davanti agli occhi assonnati che si spalancarano tosto quando tre mastini inferociti sbucarono da una capanna per lacerarmi e cavarsi la voglia di carne e di sangue. Mi inseguivano ringhiando con le fauci spalancate da dove uscivano zanne tremende, certamente letali se mi avessero acchiappato da dietro. Pedalavo con tutta la forza grazie agli dèi coltivata fin da bambino sui colli di Pesaro, poi a Bologna, a Moena, sullo Stelvio, forse immaginando che prima o poi tale ascesi mi avrebbe salvato la vita. Finalmente mi trassi in salvo dai morsi dei tre maledetti ceffi. Allora rivolsi lo sguardo alla santa faccia di luce rivolta a benedire e ravvivare la terra, all’immagine significativa del Bene supremo, insomma di Dio. Lo ringraziai per lo scampato pericolo e giurai che non sarei impallidito nell’ombra né avrei preso puzzo di muffa ma sempre venerato sempre il suo nume che oltretutto migliorava il mio aspetto con un sano colore bronzato. Poi girai verso sud la bicicletta. Il vento soffiava dal mare. Pedalavo con sonno e fatica. Pensavo alla flotta cui gli dèi invidiavano la partenza dall’Aulide. Ricordavo rabbrividendo il prezzo che il prete supremo aveva chiesto al capo supremo. 
Quindi mi identificavo con Agamennone cercando di cambiare il destino: volevo salvare la figlia che per prima mi aveva reso felice chiamandomi babbo . In quel momento non pensavo che nemmeno Zeus può sfuggire al destino[2]. Volevo che ifigenia, la mia creatura più cara, non venisse sacrificata.

gianni tuttora studente e povero.



[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5). Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 518

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