giovedì 27 febbraio 2020

Elena. Parte 15. Altre immagini orrende. Mi vidi scuoiato come San Bartolomeo. La reazione

© Copyright fotoplatforma.pl
Altre immagini orrende. Mi vidi scuoiato come San Bartolomeo. La reazione

In quella non sacra oscurità ronzavano zanzare assetate, ubique, sifoni abietti, che miravano a riempirsi di sangue. Scorpioni raccapriccianti riempivano il mio scalzo cammino drizzando minacciosi le chele letali.
Il lucus della gioia radiosa e della speranza si era mutato in un bosco sconsacrato, divenuto il luogo nebbioso dello sconforto e della disperazione. L’orrida selva fremeva presagi esiziali. Dai suoi stagni di acqua marcita, coperta di schiuma schifosa, provenivano aliti fetidi e soffocanti.
Lugubri gufi facevano lunghi, paurosi lamenti da quegli alberi strani.
Upupe immonde con luttuoso singulto annunciavano la fine dell’amore che avrebbe potenziato la mia vita per sempre. Civette obese e ripugnanti lanciavano annunci interminati di un’apocalisse vicina.
Altri suoni malaugurosi venivano da orribili sistri rosi dalla ruggine, agitati da mani sinistre. L’inferno doveva essere rimasto vuoto poiché tutti i suoi demoni avevano riempito il grande bosco di Debrecen.

Provai ad alzare il viso al cielo scomparso, ma brutte forme di sogno volteggiavano opache davanti ai miei occhi atterriti.
Il mondo, colpito da infezione diffusa, si presentava sconciato e degradato in uno squallore abominevole, trasformato in un guazzabuglio che negava l’amore e la vita.
Il cosmo mi chiudeva le porte. Si aprivano quelle infernali del caos cieco che se mi avesse sottratto Elena avrebbe compiuto il suo capolavoro. Da quella ianua inferni traspariva l’antimondo tetro e sinistro della morte.
Vedevo l’interno della mia tomba con il mio cadavere già decomposto.
Gli occhi erano buchi neri, le ossa rami secchi e fratturati: la mia persona, ben tenuta con cura durante gli ultimi anni di mia vita mortale, non si era mutata in nulla di prezioso e raro.
Apparve draco ille magnus , serpens anticuus, qui vocatur Diabolus et Satanas - oj kalouvmeno" Diavbolo" kai; oJ Satanav"[1]. Si mise a fischiare, poi  , fuori di sé cercava di fendermi il collo sotto l’orecchio gridando “bestiaccia, bestiaccia!”. Infine sogghignò e disse: “buon giorno!”
Corsì ai gabinetti per guardarmi allo specchio e vidi l’immagine più orrenda di tutte: me stesso scuoiato con un coltello nella mano sinistra e la pelle, la vagina delle membra mie, nella destra come il San Bartolomeo del Giudizio Universale dove Michelangelo ha raffigurato se stesso per significare la repulsa della propria identità terrena. Ma lo spellato deforme che vedevo nello specchio ero io.
Stavo per svenire, ma cercai di reagire. Non dovevo darla vinta a Satana.
Pensai che questo dramma, in quanto tale doveva essere agito[2],, non solo sofferto da me. L’etimologia mi aveva dato una spinta, mi aveva aiutato, come già altre volte. Tornai sul prato della sventura ma non vi restai: decisi che non dovevo tornare a sedermi su quell’erba sciagurata a soffrire, che dovevo allontanarmi da quel luogo del tutto inameno: il compito assegnatomi dal destino era cercare e ritrovare la bella donna, la sola creatura capace di illuminare la vita del mondo, renderle tutti i colori, di restituirmi al gianni che volevo diventare facendomi tornare nella mia pelle rinnovata e rigenerata. Un aiuto in questo senso me lo aveva dato già Fulvio nel 1966 quando arrivai a Debrecen scuoiato da gente cattiva di Pesaro e di Bologna. Già allora cambiai pelle e costumi. dovevo farlo di nuovo se Elena mi aiutava
Sentivo la necessità di contrapporre alle visioni infernali che mi opprimevano, il volto santo e il corpo immacolato, reale di Elena.

Era necessario che andassi a cercarla per confutare la deformità che mi aveva assalito, o per confermarla. Lo avrebbe deciso lei. Dovevo ritrovare e riaprire la ianua caeli, la porta del cielo e della realtà. Elena poteva restaurare la mia mente disfatta, rilegare il mio animo morso e rimorso dai tormenti come un libro mangiato dalle tarme.
Era arrivato il momento della rivolta: di dire “no!” al quel rimuginare doloroso, maniacale. Ne avrai le scatole piene anche tu, caro lettore.
“Io oramai vengo chiamato dal destino” mi dissi sentendomi un eroe tragico, quindi sollevai la testa dal gorgo degli affanni, mi alzai di scatto dal prato dell’acciecamento e scappai via senza nemmeno salutare i compagni vestiti di nebbia folta e grossa: prima corsi verso il collegio numero uno fino alla porta di camera sua dove bussai ripetutamente con mani frenetiche, invano; poi, invece di fermarmi a intonare un paraklausivquron3, mi diedi a correre in direzione delle cliniche universitarie, che comprendevano il reparto delle “donne pregnanti e malate”, com’era scritto sopra l’ingresso dell’istituto già visitato e osservato con cura durante un prolungato intervallo tra le lezioni di lingua ungherese che mi importavano molto meno di quella femmina finnica, non per lascivia e dissolutezza, ma poiché sapevo che l’idioma magiaro avrebbe avuto un’importanza minore dell’amore di lei riguardo alla mia crescita umana e ai bisogni del demone mio, scelto a suo tempo da me. Un’elezione che non potevo tradire.

La clinica non era lontana dal nostro collegio e si poteva raggiungere facilmente pure a piedi, ma vi lavoravano medici strani: era insomma un ambiente dove la bella donna, forse già in quel momento, sottostava a una visita imbarazzante, per giunta senza potersi spiegare con il ginecologo asiatico o africano, che magari era bravo e gentile, ma, se non sapeva parlare inglese né finlandese, le avrebbe fatto domande incomprensibili, mentre le palpeggiava il bianchissimo ventre con mani nere oppure olivastre.
“Certo”, pensavo, “se i dottori neri, o gialli, o bianchi, parlano solo ungherese o altre lingue da lei sconosciute, Elena avrà bisogno di aiuto”.
Rimuginando, correvo lungo i binari del tram resi scivolosi da una pioggerella viscida.
Ne ero innamorato; del resto le avevo promesso che l’avrei accompagnata in ospedale per aiutarla, perciò l’avrei fatto anche se mi fosse stata indifferente o nemica.
Che cosa speravo realmente? Che fosse incinta davvero, che abortisse, che venisse in Italia con me?
Non lo so. Col tempo, tanto tempo, ho capito che la sua funzione “storica” nei miei confronti era nutrirmi lo spirito per il tempo veloce e prezioso di un mese scarso, e accrescere la mia autostima con le qualità non comuni di cui l’avevano dotata benignamente gli dèi. Perché ne facesse dono a me.
Correvo e mi ponevo domande: “Elena deve donarmi il corpo e l’anima sua. E io come la contraccambio? ” Mi davo anche delle risposte: “Intanto oggi l’aiuto a spiegarsi con il ginecologo senegalese o vietnamita o uzbeko, e le faccio sentire la mia solidarietà, poi magari la renderò immortale raccontando questa storia nobile e bella di aiuto reciproco. Ci metterò la verità e la bellezza necessarie l’arte”.


 - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
[1] Cfr. Giovanni, Apocalisse, 12, 9.
[2] dra'ma da dravw “agisco”.
[3] Lamento davanti alla porta chiusa.

Nessun commento:

Posta un commento

Ifigenia CLV In piscina con Giulia. Fedeltà o tradimento? Questo è il problema.

  Il pomeriggio   del 9 agosto andai in piscina con la bella ragazza serba. Giulia era formosa e venusta in qualunque modo fosse vesti...