lunedì 4 luglio 2016

Alcesti. VI parte

Giacomo Umberto Busulini, Baccanali

Ma Admeto, arrivando a odiare il padre e la madre, ovviamente esagera, e dà spunti ad Aristofane il quale nelle Nuvole rappresenta Fidippide, il ragazzo che, corrotto dalla scuola di Socrate e dalla sconvolgente drammaturgia di Euripide, torna a casa e picchia il padre scandalizzato siccome il figlio osa citare un verso del tragediografo blasfemo verso gli dèi e la famiglia: "un fratello sbatteva la sorella" (v. 1372).

 Admeto invece indirizza tutto il proprio amore sulla moglie, anche dopo la morte di lei:
"Tu invece, dando in cambio della mia vita il bene più prezioso, mi hai salvato. Non ho motivo di piangere perdendo con te una tale sposa? 342
Farò cessare le feste e le riunioni dei simposi
e le corone e i canti che occupavano la mia reggia.
Sono finite dunque le feste, ma anche gli incontri tra persone di elevata intellettualità com'è il Simposio di Platone per esempio che mette insieme, tra gli altri, Aristofane, Socrate e Alcibiade a ragionar d'amore.
Nietzsche e Ibsen vedono nella festività una delle quintessenze della civiltà greca.

La festa.
Nietzsche sostiene che "nella festa è compreso: orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione animale - tutti stati d'animo a cui il cristiano non può onestamente dire di sì", e conclude: " La festa è paganesimo per eccellenza".
Su questo argomento e in modo simile torna Ibsen ne L'apostasia del Cesare dove un sofista dice a Giuliano: " Esiste un mondo splendido che voi galilei non vedete; un mondo dove la vita è una festa solenne fra belle statue e inni nei templi, con calici colmi di vino e rose fra i capelli. Ponti vertiginosi vengono gettati fra spirito e spirito".
Tucidide ci parla delle feste degli Ateniesi: prima nella considerazione allarmata dei nemici Corinzi i quali li presentano come pericolosi in quanto considerano una festa nient'altro che fare il proprio dovere (" eJorth; n a[llo ti hJgei'sqai h] to; ta; devonta pra'xai", I, 70) e una disgrazia non meno una tranquillità inattiva che un impegno penoso. Insomma, continuano, se uno, riassumendo, dicesse che sono nati per non avere pace loro e non lasciare in pace gli altri uomini, direbbe la verità.
Poi, con parole attribuite a Pericle, le feste degli Ateniesi vengono presentate in questo modo: "e inoltre abbiamo procurato al nostro spirito moltissime pause alle fatiche (tw'n povnwn pleivsta" ajnapauvla" th'/ gnwvmh/ ejporisavmeqa), con l'istituzione di agoni e feste perenni (ajgw'si mevn ge kai; qusivai" diethsivoi" nomivzonte"", II, 38, 1)". Ecco dunque un altro segno di senso della misura: l'alternanza della fatica con la festa.
Lo scita Anacarsi, racconta Plutarco, derideva l'opera di Solone che pensava di frenare l'ingiustizia e l'avidità dei cittadini con parole scritte le quali non differiscono per niente dalle ragnatele ("aJ; mhde; n tw'n ajracnivwn diafevrein", 5, 4), ma, come quelle, tratterranno le deboli e le piccole tra le prede irretite, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi. Il legislatore ateniese rispose che adattava il suo codice ai cittadini, in modo da mostrare a tutti che agire con giustizia è meglio che trasgredire le leggi. Ma, commenta Plutarco, le cose andarono a finire come supponeva Anacarsi il quale dopo avere assistito all'assemblea fece un'altra riflessione intelligente: "oJvti levgousi me; n oiJ sofoi; par& JvEllhsi, krivnousi d& oiJ ajmaqei'"" (5, 6), che presso i Greci parlano i sapienti ma decidono gli ignoranti. Ho scelto questo personaggio perché Mazzarino ne fa il tipo dell'uomo orientale che sceglie la cultura greca contrassegnata dalla "festività orgiastica", mentre il popolo scita"può essere caratterizzato, comunque, dal simbolismo", come si vede "nel racconto erodoteo sui doni scitici a Dario".

Ma diamo la parola all'autore di Il Pensiero Storico Classico: "attribuite ad un popolo come lo scita, che tiene un pò dell'orientale (come noi oggi sappiamo, e come anche Erodoto sapeva: IV 11), e un pò dell'Europa giovane... quelle maniere simboliche hanno un rilievo tutto particolare. Cosa si può contrapporre ad esse da parte della cultura greca? Tutto un mondo diverso: Erodoto lo sa benissimo. Ma egli sottolinea un punto: la festività orgiastica di tipo ellenico. Egli racconta che lo scita Anacarsi fu ucciso perché, tornato dalla greca Cizico nella sua patria, celebrò la festa in onore della Madre degli dèi, alla maniera greca "tendendo un timpano e appendendo statuette al suo corpo". Qualcosa del genere racconta, ancora, a proposito di un altro scita, Skyles: anche in questo caso, gli Sciti si sarebbero offesi perché egli baccheggiava come i Greci. Se in queste tradizioni erodotèe vogliamo cogliere un'antitesi caratteristica per noi, possiamo formularla in questo modo: da un lato simbolismo scitico, dall'altro festività orgiastica dei Greci. Non già che gli Sciti, nella intuizione di Erodoto, non abbiano un culto. Come hanno gli dèi, così hanno i sacrifici; e persino i templi del dio della guerra. Ma non hanno sacerdoti veri e propri; hanno piuttosto indovini. E soprattutto, non hanno il dio Dioniso - Bacco, mentre hanno Zeus, Apollo, Afrodite, Eracle, Ares, ed anche Posidone. Gli Ellèni, che secondo Erodoto hanno appreso dagli Egiziani il culto di Dioniso - Bacco, appaiono, già per questo, fondamentalmente diversi dagli Sciti".
Tornando a Plutarco, egli nello scritto Iside e Osiride identifica questo dio egiziano con Dioniso, e la dea Iside con Demetra. L' Egitto in entrambi gli storiografi greci è vecchissimo e padrone di ogni sapere.
Plutarco tende al sincretismo e, oltre far coincidere Osiride con Dioniso, Iside con Demetra, assimila Oros ad Apollo, Toth a Ermes.

Sembra che la vita di Admeto non possa continuare dopo la morte di Alcesti:
"Infatti non potrei più toccare la lira
né innalzare l'animo perché canti al flauto
 libico: tu infatti mi hai tolto la gioia della vita"347
Sembra che i due gareggino nell'agone dei sensi di colpa.
Viene poi la trovata che davvero può fare ascrivere Euripide tra gli autori della decadenza, tanto che negli anni 70 venne fatto un film che sviluppava l'idea seguente:
"Il tuo corpo effigiato dall'abile mano
di artisti sarà steso nel letto
e su quello io mi getterò e abbracciandolo
e invocando il tuo nome, crederò di avere
nelle braccia l'amata sposa, pur non avendola;
gelida gioia credo (yucra; n mevn, oi\mai, tevryin), ma tuttavia allevierei
il peso dell'anima. E nei sogni
andando e venendo, mi allieteresti: dolce infatti
è vedere gli amati, sia pure di notte, qualunque sia il tempo in cui è possibile. (vv. 347 - 356)

Il tema della statua invero è già classico: anche Laodamia, la vedova di Protesilao si era fatta costruire una statua con l'immagine del marito, morto per primo tra i Greci sbarcati a Troia (cfr. Iliade, II, 698).
Pure da questa storia del resto Euripide trasse una tragedia (il Protesilao appunto) che non ci è arrivata.
Luciano tratta lo stesso mito nei Dialoghi dei morti.

"In un’altra tragedia euripidea all’incirca della stessa epoca, il Protesilao, una trovata simile diviene addirittura il perno dell’azione: Laodamia, fattasi costruire una perfetta riproduzione in cera del marito morto, lo tiene nella sua stanza e l’abbraccia e la bacia, fino a destare in chi la sente il sospetto di concedersi a un altro uomo. Più tardi, gli storici dell'arte antichi vollero individuare l'origine di tutte le arti figurative proprio in questo tormentoso desiderio della persona amata che non è più…Laodamia dice che “non rinunzierà all’amato pur senza vita". La duplice utilizzazione del motivo da parte di Euripide autorizza poi la conclusione che tali opere d’arte siano venute di moda intorno al 438 a. C.
Il motivo della statua che parla o funge da personaggio si trova anche nel teatro barocco. Nei vari Don Giovanni la statua del commendatore svolge un ruolo importante, all'incirca quello del deus ex machina. Quello di Moliere è del 1665; il prototipo è El burlador de Sevilla di Tirso de Molina, del 1640; il più famoso, l'opera di Mozart - Da Ponte fu rappresentato per la prima volta nel 1787.
 In Racconto d'inverno di Shakespeare (1610) Ermione compare come statua al geloso marito Leonte, il re di Sicilia che sedici anni prima l'aveva accusata di infedeltà e condannata a morire: "quel grande maestro italiano, Giulio Romano... ha fatto Ermione così simile a Ermione che dicono che uno le parlerebbe, e starebbe colla speranza di una risposta" (V, 2).

 Nell'esodo di questa tragicommedia Alcesti tornerà in scena velata e silenziosa come una statua e non si capisce se sia tornata viva o morta: Admeto prima di riconoscerla le tende la mano come se dovesse tagliare il capo alla Gorgonie (v. 1118) che avrebbe pietrificato Perseo se l'avesse guardata.

Ma al punto dove siamo arrivati il marito fa un' ipotesi (irreale) sulla salvabilità della moglie da parte sua:
"E se io avessi la lingua e il canto di Orfeo
così da poterti strappare all'Ade affascinando
con i canti o la figlia di Demetra o lo sposo di quella,
vi scenderei e il cane di Plutone né
Caronte, il traghettatore di anime curvo sul remo
potrebbero trattenermi, prima che avessi riportato la tua vita alla luce" (vv. 357 - 362).
In questa evocazione del cantore tracio, Kott trova dell'ironia: "anche il più ignorante degli spettatori sapeva che Orfeo non era riuscito a portare Euridice fuori dagli inferi".

Egli infatti non seppe aspettare: si girò indietro e la perdette.
Non solo: qualche decennio dopo l'Alcesti, Platone nel Simposio racconta che Orfeo non piacque agli dèi e non riebbe l'amata Euridice" o{ti malqakivzesqai ejdovkei... kai; ouj tolma'n e{neka tou' e[rwto" ajpovqnh/skein w{sper [Alkhsti"". (179d) poiché sembrava essere vile e non osare morire per amore come Alcesti.
“Euripide è stato straordinariamente perfido”, commenta Kott, "Admeto non solo dimentica che il cantore trace non è riuscito a recuperare la moglie, ma non gli viene in mente di assomigliargli per la sua codardia" (p. 133).

Nei versi seguenti il marito continua a professare amore e fedeltà eterni per la sposa la quale gli affida i figli, come a un padre e pure come a una madre:
"Tu ora per questi figli sii madre in vece mia" (377),
con un verso che dà testimonianza della femminilizzazione dell'uomo euripideo, un processo che procede parallelamente nella scultura, se osserviamo l'Ermes con Dioniso bambino di Prassitele (si trova al museo di Olimpia) e lo confrontiamo per esempio con l'Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus, sempre di Olimpia: il primo è molle e flessuoso come una donna, il secondo eretto e con il braccio e la mano destra tesi sembra indicare la misura umana ed eroica ai mostri caotici che si azzuffano ai suoi piedi.
Con questi "mammi" come si dice ora, usciamo davvero dalla dimensione della piena classicità.

Admeto accetta questo ruolo di mamma vicaria:
"Ce n'è grande necessità per me, per noi che siamo stati privati di te" (378), e Alcesti, forse facendosi poche illusioni sulla fedeltà del vedovo ribatte:
"Il tempo ti consolerà: chi è morto non è più niente" (381),
quindi, dopo qualche altra battuta invero ripetitiva, muore:
"non sono più nulla" (390)
"Che fai ci lasci? ", domanda Admeto, non senza retorica; ed ella:
"Addio" (391). E' la sua ultima parola, parola mozza cai`r j.

Segue il lamento del figlio Eumelo che invoca pateticamente la madre già morta:
"ascoltami, ascoltami, mamma, ti prego.
sono io, io mamma
che ti chiamo,
il tuo uccellino (neossov~) piegato
sulle tue labbra" (400 - 403).
I bambini quali portatori di debolezza che susciti compassione sono creature care a Euripide, e il paragonarli agli uccellini è un topos di questo autore.
Nelle Troiane, Andromaca, salutando il piccolo Astianatte condannato a morire dai Greci perché con lui si spenga l'eccellenza di Ettore ("la nobiltà del padre ti ucciderà"742), raggiunge il culmine del pathos dicendogli:
"Perché mi hai afferrata con le mani e ti avvinghi alle vesti

rifugiandoti sotto le mie ali come un uccellino? (neosso; ~ wJseiv”, vv 750 - 751).


continua 

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