Giacomo Umberto Busulini, Baccanali |
Ma
Admeto, arrivando a odiare il padre e la madre, ovviamente esagera, e dà spunti
ad Aristofane il quale nelle Nuvole
rappresenta Fidippide, il ragazzo che, corrotto dalla scuola di Socrate e dalla
sconvolgente drammaturgia di Euripide, torna a casa e picchia il padre
scandalizzato siccome il figlio osa citare un verso del tragediografo blasfemo
verso gli dèi e la famiglia: "un fratello sbatteva la sorella" (v. 1372).
Admeto invece indirizza tutto il proprio amore
sulla moglie, anche dopo la morte di lei:
"Tu invece, dando in cambio della mia vita il
bene più prezioso, mi hai salvato. Non ho motivo di piangere perdendo con te
una tale sposa? 342
Farò cessare le feste e le riunioni dei
simposi
e le corone e i canti che occupavano la mia
reggia.
Sono
finite dunque le feste, ma anche gli incontri tra persone di elevata
intellettualità com'è il Simposio di Platone per esempio che mette
insieme, tra gli altri, Aristofane, Socrate e Alcibiade a ragionar d'amore.
Nietzsche
e Ibsen vedono nella festività una delle quintessenze della civiltà greca.
La festa.
Nietzsche sostiene che "nella festa è compreso:
orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di
serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione
animale - tutti stati d'animo a cui il cristiano non può onestamente dire di
sì", e conclude: " La
festa è paganesimo per
eccellenza".
Su
questo argomento e in modo simile torna Ibsen
ne L'apostasia del Cesare dove un sofista dice a Giuliano: "
Esiste un mondo splendido che voi galilei non vedete; un mondo dove la vita è
una festa solenne fra belle statue e inni nei templi, con calici colmi di vino
e rose fra i capelli. Ponti vertiginosi vengono gettati fra spirito e
spirito".
Tucidide ci parla delle feste degli Ateniesi: prima nella considerazione allarmata dei
nemici Corinzi i quali li presentano come pericolosi in quanto considerano una
festa nient'altro che fare il proprio dovere (" eJorth; n a[llo ti
hJgei'sqai h] to; ta; devonta pra'xai", I, 70) e una disgrazia non meno una tranquillità inattiva che
un impegno penoso. Insomma, continuano, se uno, riassumendo, dicesse che sono
nati per non avere pace loro e non lasciare in pace gli altri uomini, direbbe
la verità.
Poi, con parole
attribuite a Pericle, le feste degli Ateniesi vengono presentate in questo modo:
"e inoltre abbiamo procurato al nostro spirito moltissime pause alle
fatiche (tw'n
povnwn pleivsta" ajnapauvla" th'/ gnwvmh/ ejporisavmeqa), con l'istituzione di agoni e feste
perenni (ajgw'si
mevn ge kai; qusivai" diethsivoi" nomivzonte"", II, 38, 1)". Ecco dunque un
altro segno di senso della misura: l'alternanza della fatica con la festa.
Lo scita Anacarsi, racconta Plutarco, derideva l'opera di Solone
che pensava di frenare l'ingiustizia e l'avidità dei cittadini con parole
scritte le quali non differiscono per niente dalle ragnatele ("aJ; mhde; n tw'n
ajracnivwn diafevrein", 5,
4), ma, come quelle, tratterranno le deboli e le piccole tra le prede irretite,
mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi. Il legislatore ateniese
rispose che adattava il suo codice ai cittadini, in modo da mostrare a tutti
che agire con giustizia è meglio che trasgredire le leggi. Ma, commenta
Plutarco, le cose andarono a finire come supponeva Anacarsi il quale dopo avere
assistito all'assemblea fece un'altra riflessione intelligente: "oJvti levgousi me;
n oiJ sofoi; par& JvEllhsi, krivnousi d& oiJ ajmaqei'"" (5, 6), che presso i Greci parlano i
sapienti ma decidono gli ignoranti. Ho scelto questo personaggio perché Mazzarino ne fa il tipo dell'uomo orientale
che sceglie la cultura greca contrassegnata dalla "festività
orgiastica", mentre il popolo scita"può essere caratterizzato, comunque,
dal simbolismo", come si vede "nel racconto erodoteo sui doni
scitici a Dario".
Ma diamo la parola all'autore di Il
Pensiero Storico Classico: "attribuite ad un popolo come lo scita, che
tiene un pò dell'orientale (come noi oggi sappiamo, e come anche Erodoto sapeva:
IV 11), e un pò dell'Europa giovane... quelle maniere simboliche hanno un
rilievo tutto particolare. Cosa si può contrapporre ad esse da parte della
cultura greca? Tutto un mondo diverso: Erodoto lo sa benissimo. Ma egli
sottolinea un punto: la festività orgiastica di tipo ellenico. Egli racconta
che lo scita Anacarsi fu ucciso perché, tornato dalla greca Cizico nella sua
patria, celebrò la festa in onore della Madre degli dèi, alla maniera greca
"tendendo un timpano e appendendo statuette al suo corpo". Qualcosa
del genere racconta, ancora, a proposito di un altro scita, Skyles: anche in
questo caso, gli Sciti si sarebbero offesi perché egli baccheggiava come i
Greci. Se in queste tradizioni erodotèe vogliamo cogliere un'antitesi
caratteristica per noi, possiamo formularla in questo modo: da un lato
simbolismo scitico, dall'altro festività orgiastica dei Greci. Non già che gli
Sciti, nella intuizione di Erodoto, non abbiano un culto. Come hanno gli dèi, così
hanno i sacrifici; e persino i templi del dio della guerra. Ma non hanno
sacerdoti veri e propri; hanno piuttosto indovini. E soprattutto, non hanno il
dio Dioniso - Bacco, mentre hanno Zeus, Apollo, Afrodite, Eracle, Ares, ed
anche Posidone. Gli Ellèni, che secondo Erodoto hanno appreso dagli Egiziani il
culto di Dioniso - Bacco, appaiono, già per questo, fondamentalmente diversi
dagli Sciti".
Tornando a Plutarco, egli nello scritto
Iside e Osiride identifica questo dio egiziano con Dioniso, e la dea
Iside con Demetra. L' Egitto in entrambi gli storiografi greci è vecchissimo e
padrone di ogni sapere.
Plutarco
tende al sincretismo e, oltre far coincidere Osiride con Dioniso, Iside con
Demetra, assimila Oros ad Apollo, Toth a Ermes.
Sembra
che la vita di Admeto non possa continuare dopo la morte di Alcesti:
"Infatti non potrei più toccare la lira
né innalzare l'animo perché canti al flauto
libico:
tu infatti mi hai tolto la gioia della vita"347
Sembra
che i due gareggino nell'agone dei sensi di colpa.
Viene
poi la trovata che davvero può fare ascrivere Euripide tra gli autori della
decadenza, tanto che negli anni 70 venne fatto un film che sviluppava l'idea
seguente:
"Il tuo corpo effigiato dall'abile mano
di artisti sarà steso nel letto
e su quello io mi getterò e abbracciandolo
e invocando il tuo nome, crederò di avere
nelle braccia l'amata sposa, pur non avendola;
gelida gioia credo (yucra; n mevn, oi\mai, tevryin), ma tuttavia allevierei
il peso dell'anima. E nei sogni
andando e venendo, mi allieteresti: dolce
infatti
è vedere gli amati, sia pure di notte, qualunque
sia il tempo in cui è possibile. (vv. 347 - 356)
Il
tema della statua invero è già classico: anche Laodamia, la vedova di
Protesilao si era fatta costruire una statua con l'immagine del marito, morto
per primo tra i Greci sbarcati a Troia (cfr. Iliade, II, 698).
Pure
da questa storia del resto Euripide trasse una tragedia (il Protesilao appunto)
che non ci è arrivata.
Luciano
tratta lo stesso mito nei Dialoghi dei morti.
"In
un’altra tragedia euripidea all’incirca della stessa epoca, il Protesilao,
una trovata simile diviene addirittura il perno dell’azione: Laodamia, fattasi
costruire una perfetta riproduzione in cera del marito morto, lo tiene nella
sua stanza e l’abbraccia e la bacia, fino a destare in chi la sente il sospetto
di concedersi a un altro uomo. Più tardi, gli storici dell'arte antichi vollero
individuare l'origine di tutte le arti figurative proprio in questo tormentoso
desiderio della persona amata che non è più…Laodamia dice che “non rinunzierà
all’amato pur senza vita". La duplice utilizzazione del motivo da parte di
Euripide autorizza poi la conclusione che tali opere d’arte siano venute di
moda intorno al 438 a. C.
Il
motivo della statua che parla o funge da personaggio si trova anche nel teatro
barocco. Nei vari Don Giovanni la statua del commendatore svolge un ruolo
importante, all'incirca quello del deus ex machina. Quello di Moliere è
del 1665; il prototipo è El burlador de Sevilla di Tirso de Molina, del
1640; il più famoso, l'opera di Mozart - Da Ponte fu rappresentato per la prima
volta nel 1787.
In
Racconto d'inverno di Shakespeare (1610) Ermione compare come statua
al geloso marito Leonte, il re di Sicilia che sedici anni prima l'aveva
accusata di infedeltà e condannata a morire: "quel grande maestro italiano,
Giulio Romano... ha fatto Ermione così simile a Ermione che dicono che uno le
parlerebbe, e starebbe colla speranza di una risposta" (V, 2).
Nell'esodo di questa tragicommedia Alcesti
tornerà in scena velata e silenziosa come una statua e non si capisce se sia
tornata viva o morta: Admeto prima di riconoscerla le tende la mano come se
dovesse tagliare il capo alla Gorgonie (v. 1118) che avrebbe pietrificato
Perseo se l'avesse guardata.
Ma al
punto dove siamo arrivati il marito fa un' ipotesi (irreale) sulla salvabilità
della moglie da parte sua:
"E se io avessi la lingua e il canto di Orfeo
così da poterti strappare all'Ade
affascinando
con i canti o la figlia di Demetra o lo sposo
di quella,
vi scenderei e il cane di Plutone né
Caronte, il traghettatore di anime curvo sul
remo
potrebbero trattenermi, prima che avessi
riportato la tua vita alla luce" (vv. 357 - 362).
In
questa evocazione del cantore tracio, Kott trova dell'ironia: "anche il
più ignorante degli spettatori sapeva che Orfeo non era riuscito a portare
Euridice fuori dagli inferi".
Egli
infatti non seppe aspettare: si girò indietro e la perdette.
Non
solo: qualche decennio dopo l'Alcesti, Platone nel Simposio racconta
che Orfeo non piacque agli dèi e non riebbe l'amata Euridice" o{ti
malqakivzesqai ejdovkei... kai; ouj tolma'n e{neka tou' e[rwto"
ajpovqnh/skein w{sper [Alkhsti"". (179d) poiché sembrava
essere vile e non osare morire per amore come Alcesti.
“Euripide
è stato straordinariamente perfido”, commenta Kott, "Admeto non solo
dimentica che il cantore trace non è riuscito a recuperare la moglie, ma non
gli viene in mente di assomigliargli per la sua codardia" (p. 133).
Nei
versi seguenti il marito continua a professare amore e fedeltà eterni per la
sposa la quale gli affida i figli, come a un padre e pure come a una madre:
"Tu ora per questi figli sii madre in vece mia"
(377),
con
un verso che dà testimonianza della femminilizzazione dell'uomo euripideo, un
processo che procede parallelamente nella scultura, se osserviamo l'Ermes con
Dioniso bambino di Prassitele (si trova al museo di Olimpia) e lo confrontiamo
per esempio con l'Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus, sempre di
Olimpia: il primo è molle e flessuoso come una donna, il secondo eretto e con
il braccio e la mano destra tesi sembra indicare la misura umana ed eroica ai
mostri caotici che si azzuffano ai suoi piedi.
Con
questi "mammi" come si dice ora, usciamo davvero dalla dimensione
della piena classicità.
Admeto
accetta questo ruolo di mamma vicaria:
"Ce n'è grande necessità per me, per noi che siamo
stati privati di te" (378), e Alcesti, forse facendosi poche
illusioni sulla fedeltà del vedovo ribatte:
"Il tempo ti consolerà: chi è morto non è più
niente" (381),
quindi,
dopo qualche altra battuta invero ripetitiva, muore:
"non sono più nulla" (390)
"Che fai ci lasci? ", domanda
Admeto, non senza retorica; ed ella:
"Addio" (391). E' la sua ultima
parola, parola mozza cai`r j.
Segue
il lamento del figlio Eumelo che invoca pateticamente la madre già morta:
"ascoltami, ascoltami, mamma, ti prego.
sono io, io mamma
che ti chiamo,
il tuo uccellino (neossov~) piegato
sulle tue labbra" (400 - 403).
I
bambini quali portatori di debolezza che susciti compassione sono creature care
a Euripide, e il paragonarli agli uccellini è un topos di questo autore.
Nelle
Troiane, Andromaca, salutando il piccolo Astianatte condannato a morire
dai Greci perché con lui si spenga l'eccellenza di Ettore ("la nobiltà del padre ti ucciderà"742),
raggiunge il culmine del pathos dicendogli:
"Perché mi hai afferrata con le mani e ti
avvinghi alle vesti
rifugiandoti sotto le mie ali come un
uccellino? (neosso; ~ wJseiv”, vv 750 - 751).
continua
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