giovedì 21 luglio 2016

Alcesti. XII parte

Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016

Quindi Eracle prosegue:
"ora mostra quale figlio generò a Zeus
Alcmena la Tirinzia figlia di Elettrione.
Infatti devo salvare la donna morta
poco fa, bisogna che restituisca Alcesti
a questa casa e renda il favore a Admeto.
Andrò a fare la posta al signore dei morti
dalle nere ali e credo che lo troverò
vicino alla tomba mentre beve il sangue delle vittime. (vv. 837 - 845)
Kott che tende a scovare il comico e la malignità di Euripide sostiene che Eracle" Essendo uno a cui piace bere, suppone che anche Thanato sia un ubriacone" (op. cit. , p. 132).
Comunque sia, Eracle pensa a una fiera lotta, anche a costo di scendere nel mondo sotterraneo per sottrarre la preda agli dèi inferi:
"Qualora poi fallissi questa caccia ed essa non venga
alla densa pozza di sangue, andrò alle case senza sole
degli inferi, di Core e del re,
e la chiederò, e sono convinto di riportare su
Alcesti così da porla tra le braccia dell'ospite
che mi accolse in casa sua e non mi mandò via
sebbene colpito da grave sventura
ma la teneva nascosta essendo nobile, per rispetto verso di me" (vv. 850 - 857).

Alcesti può essere interpretata come un dramma che esalta l’ospitalità” (Kott op. cit).
Viene elogiata di nuovo l'ospitalità di Admeto il quale subito dopo entra in scena ad avviare un Commos ( vv. 861 - 934) che non sembra preludere all'esito lieto della vicenda. Il vedovo infatti deplora il proprio destino e la condizione nella quale è giunto a vivere:
"Certo la madre mi generò con un destino pesante.
Invidio gli estinti zhlw` fqimevnou~, quelli io amo,
quelle laggiù sono le case che desidero abitare.
Infatti non godo più nel vedere i raggi del sole
né a posare i piedi per terra" (vv. 865 - 870).

L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) si trova in Leopardi: Dialogo di Tristano e di un amico, del 1832.

Il corifèo compatisce il re e cerca di incoraggiare l'infelice che però ripete di essere inconsolabile: non trae conforto neppure dal bene che c'è stato tra lui e Alcesti, neanche dai figli avuti da lei:
" Dei mortali invidio quelli senza nozze né figli ( zhlw` d j ajgavmou~ ajtevknou~ te brotw`n)
infatti hanno una sola vita, e soffrire per questa
è un peso moderato.
Ma vedere le malattie dei figli
e il letto nuziale reso vedovo dai colpi della morte
 non è sopportabile quando è possibile vivere
sempre senza moglie e senza figli" (vv. 882 - 888).

Le nozze in effetti sono un mevga~ ajgwvn (Antifonte sofista)

Vani sono i reiterati tentativi di consolazione: Admeto ribadisce che avrebbe preferito morire:
"Perché mi impedisti di gettarmi nella
cava fossa della tomba e di giacere
spento accanto a lei, la migliore delle donne?
Invece di una, Ades avrebbe due anime
insieme, le più fedeli l'una all'altra e che insieme
avrebbero attraversato la palude ctonia" (vv. 897 - 902).

Il corifèo imbastisce una consolatio ricordando il caso di un suo parente (v. 904) che perse il figlio unico ma sopportò con moderazione il male pur essendo senza altri figli e con capelli bianchi (907 - 908).
Tale esempio di sopportazione sarebbe stato ispirato dal filosofo Anassagora che secondo una tradizione reperibile ancora in Cicerone (Tusculanae disputationes, III, 14, 19) alla notizia della morte dell'unico figlio avrebbe detto nel suo stile lapidario: " sciebam me genuisse mortalem ", sapevo di averlo generato mortale.
 A questa esemplarità del filosofo nei confronti del poeta sembra credere Nietzsche quando scrive: " il grande e sempre ardimentoso Euripide, teso nei suoi pensieri al nuovo, osò far sentire in vari modi la sua[1] parola attraverso la maschera tragica" (La filosofia nell'età tragica dei Greci p 1O9).

Admeto dunque rievoca il giorno felice delle nozze quando la sposa, "improvida di un avvenir malfido", e lo sposo erano chiamati felici poiché si univano in matrimonio due nobili discendenti da nobili. Il momento presente sembra l'antitesi di quello, gioioso e lontano:
"Ora invece degli imenei il lamento funebre,
e al posto di bianchi pepli, negre gramaglie
mi accompagnano in casa
ai giacigli deserti del letto" (vv. 922 - 925).
Il corifèo invita ancora Admeto alla rassegnazione, ma il vedovo si dichiara più disgraziato della morta:
"infatti nessun dolore la toccherà mai
e ha posto fine a molti affanni con bella gloria.
Io invece, che non dovevo vivere, schivato il destino di morte,
passerò una vita dolorosa: ora comprendo - lupro; n diavxw bivoton: a[rti manqavnw" (vv. 937 - 940).
Secondo la maggior parte degli interpreti questa resipiscenza segna il momento della "conversione" e della salvezza di Admeto.
 Kott invece, che malignamente attribuisce malignità a Euripide, come abbiamo visto, nega che ci sia stata una rinascita morale. Ci sembra un'interpretazione troppo malevola verso il vedovo che ha fatto sì una pessima figura ma ora sembra in effetti comprendere qualche cosa:
"la solitudine rimasta là dentro mi scaccerà944
quando vedrò vuoto il letto della mia sposa gunaiko; ~ eujnav~kenav~)
e i seggi sui quali sedeva, e polveroso il suolo aujcmhro; n ou\da~
sotto il tetto, mentre i figli cadendomi
alle ginocchia piangeranno la madre, e i servi
rimpiangeranno la padrona che persero nella casa". 949

Il pavimento, se non altro, è sporco perché non è stato lavato, non perché sia insanguinato: altro segno di realismo domestico secondo Kott. La polvere è un segno contrario alla vita.


continua



[1] Di Anassagora. 

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