Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016 |
Quindi Eracle prosegue:
"ora mostra quale figlio generò a Zeus
Alcmena la Tirinzia figlia di
Elettrione.
Infatti devo
salvare la donna morta
poco fa, bisogna
che restituisca Alcesti
a questa casa e
renda il favore a Admeto.
Andrò a fare la
posta al signore dei morti
dalle nere ali e
credo che lo troverò
vicino alla tomba
mentre beve il sangue delle vittime. (vv. 837 - 845)
Kott
che tende a scovare il comico e la malignità di Euripide sostiene che
Eracle" Essendo uno a cui piace bere, suppone che anche Thanato sia un
ubriacone" (op. cit. , p. 132).
Comunque
sia, Eracle pensa a una fiera lotta, anche a costo di scendere nel mondo
sotterraneo per sottrarre la preda agli dèi inferi:
"Qualora poi fallissi questa caccia ed essa
non venga
alla densa pozza di sangue, andrò alle case
senza sole
degli inferi, di Core e del re,
e la chiederò, e sono convinto di riportare
su
Alcesti così da porla tra le braccia
dell'ospite
che mi accolse in casa sua e non mi mandò via
sebbene colpito da grave sventura
ma la teneva nascosta essendo nobile, per
rispetto verso di me" (vv. 850 - 857).
“Alcesti può essere
interpretata come un dramma che esalta l’ospitalità” (Kott op. cit).
Viene
elogiata di nuovo l'ospitalità di Admeto il quale subito dopo entra in scena ad
avviare un Commos ( vv. 861 - 934) che non sembra preludere all'esito
lieto della vicenda. Il vedovo infatti deplora il proprio destino e la
condizione nella quale è giunto a vivere:
"Certo la madre mi generò con un destino
pesante.
Invidio gli estinti zhlw` fqimevnou~, quelli
io amo,
quelle laggiù sono le case che desidero
abitare.
Infatti non godo più nel vedere i raggi del
sole
né a posare i piedi per terra" (vv. 865
- 870).
L'invidia
dei morti (genitivo oggettivo) si trova in Leopardi: Dialogo di Tristano e
di un amico, del 1832.
Il
corifèo compatisce il re e cerca di incoraggiare l'infelice che però ripete di
essere inconsolabile: non trae conforto neppure dal bene che c'è stato tra lui
e Alcesti, neanche dai figli avuti da lei:
"
Dei mortali invidio quelli senza nozze né figli ( zhlw` d j ajgavmou~ ajtevknou~ te brotw`n)
infatti hanno una sola vita, e soffrire per
questa
è un peso moderato.
Ma vedere le malattie dei figli
e il letto nuziale reso vedovo dai colpi
della morte
non è
sopportabile quando è possibile vivere
sempre senza moglie e senza figli" (vv. 882
- 888).
Le nozze in effetti sono un mevga~ ajgwvn (Antifonte sofista)
Vani
sono i reiterati tentativi di consolazione: Admeto ribadisce che avrebbe
preferito morire:
"Perché mi impedisti di gettarmi nella
cava fossa della tomba e di giacere
spento accanto a lei, la migliore delle donne?
Invece di una, Ades avrebbe due anime
insieme, le più fedeli l'una all'altra e che
insieme
avrebbero attraversato la palude ctonia"
(vv. 897 - 902).
Il
corifèo imbastisce una consolatio ricordando il caso di un suo parente (v.
904) che perse il figlio unico ma sopportò con moderazione il male pur essendo
senza altri figli e con capelli bianchi (907 - 908).
Tale
esempio di sopportazione sarebbe stato ispirato dal filosofo Anassagora che
secondo una tradizione reperibile ancora in Cicerone (Tusculanae
disputationes, III, 14, 19) alla notizia della morte dell'unico figlio
avrebbe detto nel suo stile lapidario: " sciebam me genuisse mortalem
", sapevo di averlo generato mortale.
A questa esemplarità del filosofo nei
confronti del poeta sembra credere Nietzsche quando scrive: " il grande e sempre ardimentoso Euripide, teso
nei suoi pensieri al nuovo, osò far sentire in vari modi la sua[1]
parola attraverso la maschera tragica" (La filosofia nell'età tragica
dei Greci p 1O9).
Admeto dunque rievoca il giorno felice delle
nozze quando la sposa, "improvida di un avvenir malfido", e lo sposo
erano chiamati felici poiché si univano in matrimonio due nobili discendenti da
nobili. Il momento presente sembra l'antitesi di quello, gioioso e lontano:
"Ora invece degli imenei il lamento funebre,
e al posto di bianchi pepli, negre gramaglie
mi accompagnano in casa
ai giacigli deserti del letto" (vv.
922 - 925).
Il
corifèo invita ancora Admeto alla rassegnazione, ma il vedovo si dichiara più
disgraziato della morta:
"infatti nessun dolore la toccherà mai
e ha posto fine a molti affanni con bella
gloria.
Io invece, che non dovevo vivere, schivato il
destino di morte,
passerò una vita dolorosa: ora comprendo - lupro; n diavxw bivoton:
a[rti manqavnw" (vv. 937 - 940).
Secondo
la maggior parte degli interpreti questa resipiscenza segna il momento della
"conversione" e della salvezza di Admeto.
Kott invece, che malignamente attribuisce
malignità a Euripide, come abbiamo visto, nega che ci sia stata una rinascita
morale. Ci sembra un'interpretazione troppo malevola verso il vedovo che ha
fatto sì una pessima figura ma ora sembra in effetti comprendere qualche cosa:
"la solitudine rimasta là dentro mi
scaccerà944
quando vedrò vuoto il letto della mia sposa gunaiko; ~ eujnav~…kenav~)
e i seggi sui quali sedeva, e polveroso il
suolo aujcmhro; n ou\da~
sotto il tetto, mentre i figli cadendomi
alle ginocchia piangeranno la madre, e i
servi
rimpiangeranno la padrona che persero nella
casa". 949
Il
pavimento, se non altro, è sporco perché non è stato lavato, non perché sia
insanguinato: altro segno di realismo domestico secondo Kott. La polvere è un
segno contrario alla vita.
continua
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