sabato 9 luglio 2016

Alcesti. VIII parte

Jacques Louis David,
Eracle torna dall'Ade riportando Alcesti al marito Admeto

Comunque catturare quelle cavalle non sarà uno scherzo. L'eroe scambia delle battute con il corifèo che lo ha incontrato davanti al palazzo:
Corifeo" Non è facile mettere il morso a quelle mascelle". (492)
Eracle"Se non spirano fuoco dalle narici"
corifeo"No, ma fanno a pezzi gli uomini con voraci mascelle"
Eracle"Cibo di bestie selvagge, non di cavalli è questo che dici"
 Corifeo "Potresti vedere le greppie intrise di sangue" (496).

Quindi entra Admeto con il capo rasato a lutto (512). Eracle ne domanda la ragione, e il re di Fere cerca di nasconderla: afferma che i figli e i genitori stanno bene; per quanto riguarda Alcesti invece dà una risposta ambigua:
"Su di lei mi è possibile fare un doppio discorso (diplou`~ mu`qo~) " v. 519
L’eroe della tragedia, secondo Kierkegaard, come per Aristotele, non è del tutto colpevole. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica”

 Eracle non è avvezzo a certe sottigliezze sofistiche e vuole una risposta concreta:
"Hai parlato di una morta o di una viva? " (520),
ma Admeto rimane in quella ambiguità che secondo Kott è il cardine della tragedia:
"C'è e non c'è più, e mi fa soffrire" (521).
L'eroe dorico replica con il buon senso:
"Non ne so più di prima: infatti dici parole oscure" ( a[shma ga; r levgei~, 522). Sono parole senza segno. Probabilmente è scritto contro la micrologica e pur ridondante ciancia dei sofisti.
Il vedovo continua a parlare per enigmi:
"E' morto chi sta per morire, e pur essendo qui non c'è più" ( v. 527),
Eracle lo confuta con quel parlare schietto del quale il re di Fere non sembra capace:
"Essere e non essere sono considerate cose diverse" (528).

Si può pensare al parricidio compiuto da Platone nei confronti di Parmenide
Nel Sofista di Platone, lo straniero di Elea chiede a Teeteto di non credere che sia diventato quasi un parricida ( Mh; me oi|on patraloivan uJpolavbh/~ givgnesqaiv tivna, 241d) se dovrà sostenere, contro il padre Parmenide, che ciò che non è, in un certo senso, è esso pure, e ciò che è, a sua volta in un certo senso non è.
Il senso è che il genere dell’essere si specifica con il genere del non essere. Lo straniero ha disobbedito a Parmenide andando molto al di là del suo divieto e ha dimostrato non solo che il non essere è (ta; mh; o[nta wJ~ e[stin ajpedeivxamen, 258d) ma anche quale sia la forma del non essere. Il non essere è il diverso e il contrapposto all’essere. Parmenide dice che non è possibile che siano le cose che non sono. Invece il diverso dall’essere, il non essere, c’è. Così l’essere a sua volta, in tanti casi non è.

 Admeto non si lascia correggere: ammette che c'è un morto, specifica che si tratta di una donna, ma alla domanda:
"Era un'estranea o una nata nella tua stirpe? ", risponde:
"estranea ma in altro modo legata alla casa" (533).
Alla domanda successiva il vedovo risponde ancora con una mezza verità per nasconderla intera:
"Mortole il padre, era allevata qui come orfana" (535).
Sentendo che si tratta di un lutto domestico, Eracle propone di andarsene:
"mi metterò per via verso il focolare di altri ospiti" (538), ma il re non lo consente, e anzi, per tagliare corto, dà un primo segno di oblio nei confronti della morta:
" Sono morti i morti: su entra in casa" (541).
Kott ne inferisce che Admeto cominci a dimenticare Alcesti: "Dio ha dato, Dio ha tolto".
Quindi il re decide che Eracle non può andarsene, e dà ordine a un servo di accompagnarlo nelle stanze degli ospiti:
"Non è possibile che tu vada al focolare di un altro uomo.
Fagli da guida tu aprendogli le stanze degli ospiti
appartate dal palazzo e dì agli addetti
che ci sia una gran quantità di cibo, e chiudete bene
le porte che danno nella corte principale. Non sta bene che mentre sono a banchetto/
gli ospiti sentano lamenti e si addolorino" (545 - 550).
Questi versi costituiscono un punto di sostegno per chi afferma che nella schenè (fondo di legno del palcoscenico), oltre una porta centrale ce n'erano due laterali più piccole.
Poi il corifèo chiede ragione di tanta insistenza nell'offerta dell'ospitalità con un morto in casa. Admeto difende la sua scelta con la ragione sicuramente nobile della gratitudine:
"io trovo in questo un ottimo ospite
Ogni volta che giungo all’assetata (diyivan) terra di Argo"
 ( 559 - 560).
 L’aggettivo riferito ad Argo è un epiteto esornativo che si trova nell'Iliade (IV, 171) e nella La città morta di D'Annunzio.
Admeto spiega che ha tenuto nascosta la verità all'ospite perché non se ne andasse rifiutando l'ospitalità:
"il mio tetto non sa
respingere né spregiare gli ospiti" (566 - 567).
Il rispetto degli ospiti fa parte del codice tripartito che sancisce i doveri dell’uomo greco, del greco civile.

Nelle Eumenidi, le Erinni che incalzano il matricida, lo minacciano di trascinarlo tra i grandi peccatori: quanti si sono resi colpevoli verso un dio, o un ospite o hanno mancato di rispetto ai genitori (vv. 269 - 271).

Nel Terzo Stasimo (568 - 605) il Coro elogia l'ospitalità di Admeto e canta la bella natura che circonda Fere la quale fu anche nobilitata dal soggiorno di Apollo. Le ultime parole costituiscono una benedizione del carattere di Admeto:
"Il nobile
è portato al rispetto. To; ga; r eujgene; ~ - ejkfevretai pro; ~ aijdw`.
Nei buoni c'è fior di saggezza. Sono preso da ammirazione:
nel mio cuore risiede la certezza
che l'uomo pio otterrà il riconoscimento divino" (600 - 605).

Il rispetto (aijdwv"), il pudore che impedisce di trasgredire le leggi morali e quelle della polis, è un valore senza il quale, diceva già Esiodo (Opere, 200), la società umana precipita negli orrori del caos.
Chi si occupa di letteratura greca non può non sentire la forza educativa di questi autori, o, per dirla con Serenus Zeitblom, il professore di lettere classiche del Doktor Faustus di T. Mann non può "far a meno di contemplare il nesso intimo e quasi misterioso fra lo studio della filologia antica e un sentimento vivamente amoroso della bellezza, della dignità razionale dell'uomo" (p. 12).

Nel Terzo Episodio (vv. 606 - 961) assistiamo allo scontro fra Admeto e il padre Ferete.
 Kott mette in rilievo il fatto che nella tradizione comica, dalle Vespe di Aristofane a diversi drammi di Plauto, a Molière. quando si incontrano padre e figlio, è il padre a essere svergognato e ridicolizzato poiché vuole proibire al figlio ciò che ha concesso a se stesso o per gli atteggiamenti maniacali che assume;
 Euripide invece rappresenta il giovane ancora più egoista e vigliacco del vecchio: " E' dunque il figlio che viene deriso. Questo inatteso capovolgimento sembra quasi una trovata brechtiana" (Mangiare Dio, p. 124.)
Io la chiamerei piuttosto una trovata euripidea.

Viene dunque annunciato Ferete il quale" avanza con vecchio piede" (611) per portare i doni funebri alla nuora che sta per essere sepolta. L'anziano fa le condoglianze al figlio e l'elogio di Alcesti che ha salvato il marito e
"ha reso più gloriosa la vita a tutte le donne
 avendo il coraggio di compiere questa nobile azione" (623 - 624).
 Solo una donna di tale levatura eroica, conclude, è degna di essere sposata:
"io dico che tali nozze convengono
 ai mortali, altrimenti non vale la pena di sposarsi" (627 - 628).

 Ferete invero rappresenta una cultura pragmatica e valuta il matrimonio con il criterio dell'utile: una moglie come Alcesti è stata un ottimo affare.

Admeto risponde al padre con ira e disprezzo, dando un esempio classico di narcisismo, se il narcisista è colui che considera reali soltanto i propri bisogni. Egli anzi rifiuta di riconoscersi figlio di chi non ha dato la vita per lui manifestando egoismo e viltà:
"non eri davvero padre di questo corpo,
né quella che andava dicendo di avermi partorito ed era chiamata
mia madre mi partoriva, ma nato da sangue di schiavi
fui messo di nascosto sotto il seno di tua moglie.
arrivato alla prova hai dimostrato chi sei
e non credo di essere figlio tuo per natura.
Tu certo brilli tra tutti per vigliaccheria" ( diaprevpei~ ajyuciva/, vv. 636 - 642).
Anche qui Admeto dà prova di imbecillità: se lui è nato da schiavi, l’ignobile, anche biologicamente, è lui.
Sicché l'unica persona degna di essere considerata padre e madre è Alcesti:
"tu non hai voluto né osato morire
al posto di tuo figlio, ma lo avete lasciato fare a questa
donna estranea, la sola che io potrei considerare
a buon diritto madre e padre" (vv. 644 - 647).
Qui abbiamo ancora il capovolgimento dello schema usuale: non è il padre che ripudia il figlio ma è questo che ricusa i genitori.

Quindi Admeto è figlio spirituale della sola Alcesti, e Ferete non ha un erede cui potrà lasciare ricchezza di affetti e dal quale riceverà onori funebri:
"infatti io non ti seppellirò con questa mia mano:
siccome per quanto dipese da te, sono morto" (665 - 666).
Il corifèo cerca di mettere pace:
"smettetela, basta già la disgrazia presente:
o figlio, non irritare l'anima del padre!" (673 - 674).
Ma Ferete non può fare a meno di rispondere per le rime rinfacciando al figlio egoismo, vigliaccheria, irrazionalità:
"Io ti ho generato quale padrone della mia casa,
e ti ho allevato, ma non ti devo il morire per te:
infatti non ho ricevuto questa legge dagli antenati,
che i padri muoiano per i figli, e non è uso greco) novmon
 J Ellhnikovn
Per te stesso infatti, fortunato o disgraziato,
sei nato e quello che dovevi ottenere da noi, ce l'hai" (vv. 681 - 686).

Erodoto racconta novmoi diversi da quelli greci e commenta tale discrepanza scrivendo che ha fatto bene Pindaro a dire che il novmo~, la consuetudine, è regina di tutte le cose (III, 38, 4).
Nel terzo libro troviamo un episodio che afferma il valore della tolleranza. Lo riferisco poiché mi sembra uno dei più alti insegnamenti della storiografia antica. Il re Dario dunque aveva domandato a dei Greci se sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed essi risposero che non l'avrebbero fatto per niente al mondo. Quindi il re dei Persiani chiese agli Indiani chiamati Callati" oi{ tou; " goneva" katesqivousi" ( III, 38, 4) che mangiano i genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli, gridando forte, lo invitavano a non dire tali empietà. Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a me sembra che Pindaro abbia fatto affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose ("novmon pavntwn basileva fhvsa" ei\nai").
 Il frammento di Pindaro è citato nel Gorgia (484b) di Platone da Callicle il quale invero dà alla parola novmo" il significato di legge naturale che giustifica la violenza, come quella di Eracle che portò via i buoi di Gerione senza averli pagati né ricevuti in dono ("ou[te priavmeno" ou[te dovnto" tou' Ghruovnou hjlavsato ta; " bou'"").

Gli ultimi versi servono a sganciare l'individuo dalla stirpe e porta un'innovazione rispetto alle tragedie di Eschilo e di Sofocle dove le colpe dei padri ricadono sui figli ( rispettivamente Sette a Tebe e Antigone).
Quindi il vecchio fa un elogio della vita, quel bene supremo che Admeto avrebbe voluto sottrargli:
"Tu godi nel vedere la luce: credi che il padre non ne goda?
certo, io calcolo un lungo tempo da passare
sotto terra, mentre breve è la vita, ma dolce lo stesso" (to; de; zh`n smikrovn ahjll j o{mw~ glukuv, 691 - 693).

In queste parole, sebbene irate, si può trovare un'anticipazione di quell'ottimismo che si trova nelle Supplici euripidee e pure nell'Eracle dove Megara domanda ad Anfitrione
"hai bisogno di altro dolore o ami così la luce? ", e il vecchio risponde:

"godo di questa e amo le speranze"; allora la moglie di Eracle replica: "anch'io" (90 - 92). 


continua

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