martedì 16 febbraio 2021

Debrecen 1966. XII parte

Ungheria 2011
L’alloggio nel collegio nel 1966. Il ritorno in bicicletta nel 2011

 

Proseguii a piedi. Fatti duecento metri vidi e  riconobbi, riconosciuto a mia volta sebbene fossi male in arnese, alcuni studenti della facoltà di Lettere di Bologna che, arrivati la sera prima, si erano già sistemati.

 Quindi  mi accompagnarono fino al collegio poco distante dandomi buone notizie sull’ambiente, immagino per incoraggiarmi. Si vedeva che ne avevo bisogno.  Nell’ultimo breve tratto della lunga tasferta venni  aiutato da quei Samaritani mossi visceralmente[1] a compassione dal mio aspetto devastato.

Ero stato altresì assistito dal destino, poiché dietro a tutto c’è  il Fato, "cum  fatum nihil aliud sit quam series implexa causarum" [2], dal momento che il fato non è altro che la serie concatenata delle cause.

 Sicché tornai a recuperare l’automobile, e finalmente potei presentarmi alla segreteria, quindi alla ricezione dove mi assegnarono un posto in una camera a quattro letti. Il viaggio di 1200 chilometri iniziato a Pesaro due giorni prima, e svoltosi tra alcune speranze e mille terrori, infine era giunto alla meta.

 

Non sarebbe stato tanto faticoso, mentalmente, quando lo avrei ripetuto in bicicletta nel 2011, cioè quarantacinque anni più tardi quando  pure  precipitai a testa  in giù dentro un fosso profondo, con la bici sotto di me e sopra di me lo zaino, oltre il buon Dio che mi protesse. Grazie a Lui, chiunque Egli sia,  il fosso era erboso,  e l’avello suburbano di gianni ghiselli non si trova a Nagykanizsa la cittadina situata tra il confine della terra magiara  e il lago Balaton. Forse l’eterno riposo sarà Sansepolcro.

 Dopo la caduta sollevai il fianco già antico e raggiunsi di nuovo la meta con Fulvio, il vecchio amico, e i due amici giovani, gli ex allievi Maddalena e Alessandro conforti della nostra vetustà.

 Superati gli anni  della sciagura, anche grazie agli incontri fatti nell’Università estiva di Debrecen, le cose mi andarono bene, sempre meglio. Quasi invulnerabile come Achille sarei diventato. E vecchio per giunta.

 

Finito  il liceo, mi aveva oscurato la visione del mondo e di me stesso la mancanza e la necessità della gioia amorosa. Chi ne è orbato perde di vista ogni gioia. Le poesie di Leopardi sono belle per chi le legge, ma per l’autore furono consolazioni piccole e momentanèe, credo, tali che sicuramente non compensavano il premio grande, davvero olimpico, cui  il poeta aspirò per tutta la vita per il suo genio: nei desideri dovette sostituire quella brama  con l’amore  della morte , “bellissima fanciulla-dolce a veder” ma non tanto bella e dolce quanto le fanciulle e le donne osservate, ammirate, pensate a Recanati e altrove, sempre senza uno straccio di contraccambio.

Non sente il gusto della vita chi non assaggia quel sapore che ci assimila agli dèi, “perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina”[3].

 

Ma torniamo a quel mattino antichissimo. Ti ricordo, lettore novello, che era il luglio dell’anno di mia salvazione 1966. Quando ebbi ricevuto il posto del necessario ricovero per il mese seguente, cercai ansiosamente di inserirmi tra gli altri giovani del corso estivo. A cominciare dagli italiani maschi con i quali per lo meno riuscivo a parlare senza incepparmi. Del resto non feci nulla per nascondere la mia debolezza, non ne ero capace, né lo volevo, e mi resi compassionevole manifestando le paure che mi assillavano da quando, terminato il liceo tre anni prima, avevo smarrito la mia identità di ragazzo molto bravo a scuola, ottimo pure nelle corse a piedi e in bicicletta, e non ne avevo trovata un’altra. Non potevo: un’ identità altra era quella di altri o degli altri, non era la mia. Un’identità gregaria che mi metteva a disagio e mi dava dolore più di una maschera o una scarpa stretta. Dovevo ritrovare quella originaria, adatta alla mia natura, a me congeniale:  essere bravo in quanto facevo, ossia fare quello per cui ero dotato, lo studio e lo sport, a livello più maturo, più alto e proficuo. Primeggiare in favore degli altri, a partire dagli ultimi disprezzati dalla canaglia che aveva maltrattato me per tre anni.

E arrivare  a piacere alle donne, le mie vere borse di studio, i premi reali delle gare vinte. Per  raggiungere  questo podio davvero olimpico era necessario incontrare persone, soprattutto femmine umane che apprezzassero le qualità mie e mi motivassero a potenziarle. E’ bene sviluppare il proprio genio. Chi lo tradisce va inevitabilmente in rovina. Quelle che mi hanno capito e amato di più, le più intelligenti e congeniali a me, hanno detto “tu sei un genio”, provocandomi a dimostrarlo con tutti i mezzi, con tutte le forze a disposizione.

giovanni ghiselli

 



[1] Cfr. N. T. Luca, 10, 33 “Samarivth" de; ti" ojdeuvwn h\lqen kat j aujto;n kai; ijdw;n ejsplagcnivsqh”.

[2] Seneca, De beneficiis, IV, 7

[3] G. Leopardi, Operette morali, Storia del genere umano.

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