mercoledì 24 febbraio 2021

Le estati tra 1967 e il 1971. Capitolo VIII. Il 1969. La partenza verso la vita nuova

Carmignano di Brenta
Il 28 ottobre del 1969 ricevetti la nomina di professore a tempo indeterminato nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta, un altro paese dal nome lungo, in provincia di Padova. Non avevo idea di dove precisamente fosse. Ma non esitai a partire per la nuova vita assegnatami dal destino. La mamma provò a dirmi che se volevo mi avrebbe  mantenuto a Roma dove potevo andare a vivere per studiare  in una scuola di regìa. Mi fece piacere, però mi parve cosa troppo vaga e alquanto velleitaria.

Poi il mio destino e la mia vocazione era l’insegnamento scolastico che pratico ancora.

Partii dunque da Pesaro alle due del pomeriggio.

Era una bella giornata, tipicamente autunnale: dolce, quasi serena: con il cielo appena velato. Quando fui nell’autostrada dentro la Mini Minor carica di libri e bagagli, mi sembrò di viaggiare verso la malinconia e la vecchiaia, in direzione di un triste tramonto piuttosto che per una nuova fase di vita più responsabile e attiva. A Bologna l’occhio del giorno era già declinato parecchio nel rosa-grigio del cielo; a Ferrara, verso le cinque, si trovava vicino alle foglie vizze degli alberi e mi fece venire in mente un aggeggio rotondo, il piumino, con cui la madre mia si spargeva cipria sulle guance ormai stanche. Sicché il cielo intorno al sole mi pareva la carne incipriata di una donna non più giovane né sicura di piacere, sebbene di fatto ancora attraente. Ricordo questo viaggio perché me ne tornano in mente le speranze e le paure come da quello di tre anni e mezzo prima, quando, anche allora partito da Pesaro e diretto a Nord-est, andavo in cerca di una vita nuova. Tutte e due le volte sulla speranza predominava la paura. In questa replica magari piuttosto preponderava su tutto una curiosità non priva di apprensione. Ero un po’ maturato ma davanti c’era ancora parecchia strada non tutta pervia da percorrere non avevo ancora compiuto 25 anni. L’aria a occidente era rosa e farinosa proprio come una cipria che imbellettava il cielo, quindi scendeva appesantita dall’umidità e   si impastava con la terra, senza però riuscire a nasconderne i solchi, le rughe, le cicatrici conseguenze dei parti numerosi e dolorosi che avevano sfinito la grande madre esaurendo la sua potenza generativa.

Dopo Ferrara, il dio da arancione divenne rosso sangue, quindi si scolorì, mentre anche l’aria, la terra e le acque si stingevano e diventavano grigie, anemiche, spente come la faccia di un umano malato a morte. Intorno alle sei il sole si assimilò a quel grigiore, quindi scomparve. Subito dopo cominciò a  fluttuare una nebbia leggera che confondeva e uniformava tutte le cose. Stava chiudendosi l’oscura palpebra della notte [1].

A San Pelagio, l’ultimo distributore prima di Padova, mi fermai sconfortato: Sentìi gridare con voce acuta e strozzata un uccello che annunciava la lunga stagione del freddo, del buio, della mia solitudine in un paese sconosciuto, lontano. E mi si strinse il cuore. Mi confortai osservando le  foglie gialle del granoturco che suscitarono nella mia mente il ricordo delle estati ungheresi con gli amici, le donne, la puszta, la luce, il calore.

Dovevo risalie al ’68 però:  nell’ ultima estate, che non ho raccontato, avevo avuto una sola serata d’amore con un’altra finlandese sparita il giorno seguente. Niente di memorabile.

Aprìi la carta stradale e la appoggiai su un muretto. Allora un gatto nero, macchiato di bianco sulla testa, verdi gli occhi, ossia con i colori simili a quelli della madre mia che, cinquantaseienne, iniziava a incanutirsi, venne a strofinare la schiena sulle mie gambe, quindi saltò sul muretto e mi accarezzò la mano destra con la fronte screziata, più volte. A un tratto si fermò e si mise a fissarmi. Sembrava chiedermi aiuto e affetto, ma io dovevo usare per me tutto quello che avevo, così solo al mondo, onde farmi coraggio e proseguire verso la vita arcana che mi aspettava e non era tanto bene auspicata. Ma neanche malissimo: l’accentuata decadenza della stagione era dolce, e se l'inverno era vicino, nemmeno la primavera poteva essere troppo lontana; il gatto era nero ma variopinto, era una creatura viva e bella e attirata da me, fiduciosa di me. Un giorno probabilmente avrei suscitato attrazione e fiducia in viventi razionali, in diverse giovani donne sensibili e intelligenti, speravo.

 

giovanni ghiselli    


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1 Cfr. Euripide, Fenicie, 543

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