La passeggiata pensosa di mezzogiorno
“Mi piacerebbe incontrare una ragazza che come me aspira all’arte e al bello”, fantasticavo inebriato, mentre tornavo in collegio costeggiando la rete che separava la piscina dal bosco. Vedevo le gambe, i costumi, i capelli delle ragazze agognandone i corpi come nessun’altra cosa bella di questo mondo. Negli ultimi tre anni di vita avevo invocato la Morte che annullasse ogni mio grande dolore, ma l’ambiente nuovo mi spingeva a muovermi con passi lungimiranti verso suo fratello Amore da cui “nasce il piacer maggiore/che per lo mar dell’essere si trova”. Non mi ero mai svestito dell’ abito letterario. Avevo trascurato solo lo studio senza anima che veniva imposto da molti professori. Al liceo mi ci ero sottoposto pensando che, eliminato il comteggio dei numeri e la memorizzazione di formule astratte, iscrivendomi a Lettere antiche, le parole piene di idèe e di sentimenti avrebbero tolto di mezzo i tecnicismi fine a se stessi. Invece questi prevalevano anche all’Università. Credevano di tirar su la verità dal pozzo, servendosi di ajnav e di katav. [1]
“Come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino alla nausea”[2] .
Euripide aveva autorizzato il mio disgusto confermandomi che il sapere non è sapienza[3] ed ero giunto alla nausea della nozione. cioè al rifiuto di un nozionismo che non è cultura, nemmeno culturame.
La cultura potenzia la natura, rende più viva la vita, non la mortifica.
La sofferenza mi aiutava a capire sempre di più. Il tempo dei miei successi difettava di intelligenza e non dovevo rimpiangerlo.
Non osai entrare da solo nella piscina. Avevo bisogno di appoggi. Sicché mi diressi verso il collegio. Ma arrivato nella stanza che dividevo con Danilo, Fulvio e Luigino, non li trovai.
Non era ora di desinare, sicché, giunto alla mensa, procedetti dall’altra parte, sempre cercando segni che mi indicassero la direzione da prendere per attenuare il peso dell’infelicità che mi gravava di nuovo addosso come l’Etna sul maledetto Encelado[4] o il il mostro ejkatokevfalo", Tifone[5]..
Anche da quella parte, l’occidentale, avrei vissuto esperienze felici senza le quali la mia vita sarebbe stata diversa e peggiore. Non lo sapevo ma lo speravo.
Episodi belli che ne hanno causati altri ancora più belli, poi questi altri ancora, fino a formare una serie di fatti sempre più ricchi di conoscenza e di luce, una collana di gioie che hanno adornato questa mia vita mortale.
Camminavo in direzione dello stadio dove avrei corso tante volte i 5000 metri perdendo lo schifoso rivestimento porcino indossato negli anni del dolore cieco. Capivo già che di questo abito orrendo dovevo svestirmi. Sebbene ottenebrato, avevo già visto che con quella carne non mia addosso sarei dispiaciuto alle donne senza il cui aiuto non potevo redimermi.
Centocinquanta metri dopo il collegio, sulla destra, vidi un grande cancello chiuso, ma non a chiave. Su un cartello c’era scritto Botanikus kert.
Incuriosito e incoraggiato dalla desinenza latina, entrai per vedere se potevo trovarci qualche reliquia dell’antica Pannonia. In fondo Aquincum dista poco più di duecento chilometri da Debrecen.
Invero era l’orto botanico dagli alberi strani e dai fiori esotici acclimatati come certe finlandesi o svedesi sposate in Italia.
Cosa da evitare tutto sommato. Come sposare chicchessia del resto.
I pretendenti alle nozze, i proci sono predestinati male. Non solo quelli di Penelope. Quasi tutti. Vanno a caccia di nozze non augurabili, poi se ne pentono. Questo ho visto, sempre, nella mia vita mortale.
L’effetto dell’alcol stava passando: rivedevo la vita attraverso una grossa rete metallica, tipo la grata dei confessionali: una cortina sudicia, nera che mi nascondeva l’aspetto ordinato del mondo con la splendida epifania della donna la cui figura talora mi era apparsa mentre danzava fra le trecce verdi della terra e i sorrisi azzurri del cielo. Bella, sensibile all’arte, generosa, colta e sportiva. La kalokajgaqiva in persona.
Corrispondeva all’immagine ideale di me stesso, al paradigma mitico della mia vita: quello che potevo diventare se non fossi stato avversato dal destino ostile che mi inceppava il cammino.
Forse ce la facevo a restituirmi a me stesso. Era il 16 luglio del 1966: avevo ventun anni otto mesi e due giorni. Non era già troppo tardi.
La lurida grata nascondeva o stravolgeva le immagini belle. Ma non del tutto e per sempre.
giovanni ghiselli
[1] Cfr Nietzsche, Sull'avvenire delle nostre scuole, terza conferenza .
[2] H. Hesse, Sotto la ruota, del 1906, p. 90.
[3] To; sofo;n d j ouj sofiva (Baccanti , 395)
[4] Callimaco vorrebbe spogliarsi delle vecchiaia che gli pesa addosso quanto l’isola tricuspide sul maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35-36). Nell’Eracle di Euripide i vecchi coreuti vecchi compagni d'armi di Anfitrione biasimano la vecchiaia che grava sul loro capo dei con un carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo"-baruvteron Ai[tna" skopevlwn-ejpi; krati; kei'tai" ( vv. 638-640).
[5] Eschilo, Prometeo incatenato, 369.
Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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giovedì 18 febbraio 2021
Debrecen 1966. parte XVIII
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