NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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mercoledì 10 febbraio 2021

Debrecen 1966. II parte. Il viaggio trasognato dal mare alle montagne

strada Romea
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Correndo dunque, e facendo una strage di moscerini che avevano impiastricciato il parabrezza e il muso della Seicento, ero riuscito a precedere il buio maligno solo di pochi minuti. Quando arrivai alla periferia della città, il sole si era già immerso nella selvatica landa alle mie spalle, mentre dall’altra parte, la zona boscosa della Transilvania e dei selvosi Carpazi, vedevo arrivare le tenebre lunghe di una notte inquietante, popolata di spettri che mi mettevano in cuore strane emozioni: miste di presentimenti non tutti cattivi e di vaghe speranze. Ero molto giovane allora: quanto a esperienza di uomini, per non dire di donne, di rapporti umani comunque, ero quasi un bambino.

 

Ero partito da Pesaro la mattina del 14 luglio, da solo. Avevo costeggiato il mare Adriatico sulla strada Romea e attraversato un pezzo di pianura padana; poi erano apparse delle montagne, brutte però, spelacchiate, informi se non anche deformi; insomma molto diverse dai monti noti e cari, le Dolomiti antropomorfe che si ergono sulla valle di Fassa nel puro azzurro dell’etere. Dialogavo con loro nei mesi di agosto degli anni Cinquanta quando la zia Giulia mi portava lassù dove non avevo nessun altro amico con cui scambiare qualche parola. Parlavo con quei monti che per loro umanità,  mi rispondevano sempre, quasi sempre.

 Mentre avanzavo tra catene montuose che stringevano l’orizzonte da tutte le parti, il cielo residuo prima si incoronava di nubi ricciute, poi si ingombrava di nuvole  sempre più grosse, acquose, plumbee sui monti lividi, finché arrivarono a togliermi il conforto della luce del sole.

Temevo che si apprestassero a versare i loro liquidi, oscenamente. 

Infatti cominciò a piovere sulle piante rade e scure di quelle montagne brulle, simili a cani  dal pelo tarlato. Non si vedeva un’Oreade che fosse una. 

Mi sembrava piuttosto di udire bestie immonde canidi affamati, che  latravano in branco, o ululavano solitari fissando le nuvole  inquiete del cielo già quasi  ottenebrato. Ho sempre avuto paura e ripugnanza dei cani, almeno di quelli che con il loro abbaiare furioso e l’aggressività sì e no trattenuta da guinzagli malsicuri assimilavo fin da bambino a uomini rumorosi, cretini, violenti.

Proseguivo intronato e atterrito tra quegli spazi ignoti e minacciosi. Ero un ragazzo che a tratti vedeva  il male anche nel nulla.

 Non sembrava nemmeno più estate. Novembre sembrava. Ero tentato di tornare a Pesaro dove almeno la spiaggia coperta di ombrelloni e capanni e l’acqua marina ricca di raggi e di flutti,  di chiarori e di guizzi che moltiplicavano la luce del sole,  mi assicurava che la stagione meno dolente non era finita. Ma a Debrecen avevo un appuntamento con il destino. Un destino buono col senno del poi. Mi avrebbe fatto incontrare l’amico Fulvio e gli amori con le Finlandesi, tre, che racconterò perché sono storie belle, di resurrezione e riscatto. Le auguro ai buoni, ai fortunati pochi buoni.

Allora avevo solo speranze incerte e tante paure.

Arrivai sul Tarvisio che Zeus pioveva, tuonava e fulminava.

“Tuono e lampo btronth; kai; sevla"- pensai- sono segnali, segni alati del cielo,  simili a quelli ricevuti da Edipo giunto a Colono e diretto al bosco sacro della sua redenzione”.

Avevo dato gli esami di greco: tutta l’Odissea, tre  tragedie di Euripide, due di Eschilo e altre due di Sofocle. Ne avevo la testa infarcita.

Attirato da quei segni divini, decisi di proseguire. Prima però scesi dall’automobile e andai a cambiare denaro per mangiare e dormire in Austria: a Graz, se ci fossi arrivato a un’ora possibile, poiché c’erano altri duecento chilometri ignoti da percorrere, probabilmente sotto la pioggia. Avevo un forte male di gola e molti timori imprecisati. Volevo capirli, definirli, domarli.

 Per questo dovevo procedere. Fata viam invenient [1], pensai. Avevo dato anche latino con tutta l’Eneide. La via era quella che portava alla mia identità, al diventare quello che sono, non dico chissà chi, ma per lo meno me stesso. Questo contava.

Quando fui rientrato nell’automobile, vidi un lampo che illuminava l’Oriente, la parte di Graz e “di quella terra che il Danubio riga-poi che le ripe tedesche abbandona”[2].  L’abito letterario non me lo sono mai tolto. Mi ha sempre aiutato.

 Sentìi tre volte il suono di un tuono strano: aveva qualche cosa di musicale. Aderitque vocatus deus [3], completai. Traevo auspici. Sperare che la mia vita sarebbe cambiata in meglio era plausibile: in peggio non poteva. Guardai le creste dei monti che apparvero cosmetizzati, lisciati e imbelliti dalla pioggia intermittente, seguita da qualche sprazzo di sole , e mi sembrò di vedere, mentre saltava di vetta in vetta, una donna o una dea luminosa, vestita di bianco. Presagio di un incontro felice?

Scintillavano i suoi occhi, i capelli rossi avevano i bagliori del vello d’oro o di un fuoco prometeico.

Un vento libertino le sollevava le gonne fino alla metà delle cosce tornite.

 Poteva preannunciare la creatura bella e fine che un giorno avrei incontrato e mi avrebbe amato se non mi fossi perduto d’animo e avessi ricominciato a progredire, cercandola. Avrei voluto unirmi a lei in quel tripudio bacchico. Sentivo che prefigurava qualche cosa della mia esistenza.

Allora era una figura eterea, una promessa quasi ultraterrena, ora che mi avvicino ai 77 anni, iam senior, sed cruda mihi  viridisque senectus "[4], posso chiamarla per nome, anzi, grazie al mio Dio generoso, con molti nomi, pollw`n ojnomavtwn morfh; miva[5], e ringraziare Zeus chiunque egli sia, di avere mantenuto la grande promessa di allora: di avermi fatto incontrare quella  creatura celeste, incarnata in Helena , in Kaisa , in Päivi, le finlandesi di Debrecen, e nelle italiane incontrate qua e là, in Luciana, in Ifigenia, in Olga, in Magda, in Daniela e in diverse altre. Tutte dileguate, ma non senza avere prima svolto la loro funzione storica. Sempre grazie  Dio, chiunque mai egli  sia, o[sti" pot  j ejstivn[6].

Un poco confortato dunque, scesi dal passo Tarvisio tra i villaggi lindi dell’Austria: Villach e altri, in direzione di Klagenfurt. C’era qualche cosa di simpatico, pulito, ordinato in quei paesini, mentre le nuvole sembravano diradarsi.

 Invece, quando ebbi traversato Klagenfurt e ripresi a salire tra i monti, il cielo si annerò tutto di nuovo, poi ricominciò a piovere, infine la luce scomparve in un vapore esalato dagli stessi monti bagnati. Procedevo nell’oscurità della notte deserta.

Un dio mi inceppava il cammino. Avevo paura. Di non arrivare alla meta. Tra quelle montagne ignote non si vedeva più niente, tranne una decina di metri davanti all’automobile che procedeva con i fari abbaglianti accesi. Ma sì, potevo anche morire. “Tanto della mia vita-pensavo- non importa niente a nessuno”.

Tranne a mia madre alle zie e ai nonni che del resto aveva tanti altri problemi loro e non potevano sobbarcarsi anche i miei che per 19 anni anzi ero stato la loro consolazione. Sentivano che erano vissuti per me e da un paio di anni toglievo significati buoni alla loro vita mandando in tanta malora la mia.

Però reagivo a tanta cupezza. Sentivo che era eccessiva e pure un poco affettata. Quindi cambiavo registro.



Bologna 10 febbraio 2021 ore 9, 30

giovanni ghiselli.


p. s.

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[1]  Virgilio, Eneide III, 395, i  fati troveranno la via.

[2] Dante, Paradiso VIII, 66-67. Ovviamente designa l’Ungheria.

[3] Eneide, III, 395, e sarà presente, invocato, un dio.

[4] Cfr. Eneide, VI, 304, già piuttosto  vecchio, ma  cruda e vigorosa è la vecchiaia mia

[5] Eschilo, Prometeo incatenato, 210, una sola forma di molti nomi.

[6] Cfr. Eschilo, Agamennone, 160.

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