martedì 9 febbraio 2021

Debrecen 1966. I parte. L’apprendistato

le furie
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Devo completare la storia del mio apprendistato, risalendo al tempo remoto della prima partenza per l’Università estiva di Debrecen.

L’arrivo a Debrecen nel luglio del 1966

 

Voglio ricordarti, lettore, quell’approdo a Debrecen dove giunsi da un mare tempestoso per farti vedere quanto possano una forte volontà, una capacità di comprendere e un  poco di buona fortuna nel cambiare in meglio, nel risollevare la vita di un essere umano, di un ventenne già quasi  caduto nell’abisso della disistima e del disprezzo di sé.

Era una sera dell’estate del ’66, intorno alla metà di luglio ; avevo precisamente 21 anni e otto mesi quando, al tramonto del sole, arrivai nell’ignota cittadina ungherese dopo un viaggio inquieto con un veicolo vetusto  e scassato, una Fiat 600 che, attraversando la puszta, aveva schiacciato migliaia di insetti brulicanti nell’aria della grande pianura  e negli ultimi chilometri si era arrossata del loro sangue, mentre il parabrezza  mi  rendeva poco perspicuo il pecorso rimasto da compiere.

Ma il più insanguinato, almeno metaforicamente, ero io  caduto sulle spine della vita dopo la fine del liceo.

Stavo seguendo le mie Erinni che apparivano a me, come una volta a Oreste. Anche io dovevo dire alle poche persone che mi trovavano trasognato " uJmei'~ me;n oujc oJra'te tavsd  j, ejgw; d ‘ oJrw'[1], voi non vedete queste, ma io le vedo".

Le Furie mi incalzavano ovunque e solo dopo vari  tentativi  di fuggire invano, cominciavo a capire che dovevo seguirle: “ejlauvnomai de; koujkevt j a]n meivnaim j ejgwv[2] , sono sospinto e non posso più restare io.

Venivo da una famiglia piena di decadenza. Avevo reagito cercando di primeggiare a scuola e in bicicletta. Ci ero riuscito: nelle elementari Carducci, nelle medie Lucio Accio, nel liceo Terenzio Mamiani di Pesaro.

In seguito ai successi negli agoni che imponevo a me stesso e ad altri quasi ogni giorno, mi ero montato la testa dandomi aria da superuomo: aiutavo magari quelli meno bravi, però non nascondevo il mio disprezzo mentre li lasciavo copiare o suggerivo. In bicicletta vincevo ogni sfida in salita e a cronometro, poi davo dei debosciati ai vinti.  Dopo ogni gara mi lanciavo a gridare l’alalà della vittoria rinfacciando la sconfitta ai perdenti. Errori che avrei pagato con la sofferenza fino a quando non li avessi capiti: “tw`/ pavqei mavqo"”. Il effetti il dolore, paradossalmente, mi avrebbe guarito e reso migliore. Di nuovo Eschilo e anche Giobbe.

L’arroganza  non apparteneva alla mia natura autentica: era stata una reazione alla povertà di affetti. Quello che è il mio carattere vero mi punì. Cioè mi castigai da solo con le mie mani che mettevano continuamente cibo nelll’insatiabilis rictus il grugno ingordo da uomo degradato a maiale. Naturalmente con questo regime smisi di gareggiare in bicicletta e inebetìi la mia mente. Lo studio mi costava fatica, la bici da cara mi era divenuta estranea. Insomma persi la mia identità. Significa il cancro dell'anima. Stavo andando a Debrecen dopo quasi tre anni di tale degradazione, una deminutio mei ipsius. Mi ero imbestiato male.

Oramai pensavo che dovevo risalire la china della sventura oppure morire. Redde me meo Ioanni, dicevo a me stesso,  depelle suis hanc diram faciem, rendimi al Giovanni che sono, elimina questo orribile aspetto da suino! Ricavo questo dall’imbestiamento in asino di Lucio che prega di tornare uomo.

Non scrivo nulla che non sia testimoniato: dal mio vissuto o dalla lezione dei classici. Apuleio e Callimaco.

 

Negli ultimi venti chilometri, precisamente da Hajdúszoboszló, avevo forzato la vecchia automobile per arrivare nella remota Università estiva prima che il sole, la lucerna del mondo, sparisse dall’orizzonte, lasciandomi nel buio dell’immensa distesa, coltivata ma priva di alberi, popolata ma da poche persone distribuite in  case isolate, in piccoli e  radi borghi pressoché primitivi, dove oltretutto parlavano una lingua veramente straniera, uno strano idioma agglutinante di cui, attraversando la terra magiara tutto quel giorno, mi ero accorto di capire pochissimo.

L’esame di lingua e letteratura ungherese dato a Bologna mi aveva fruttato un trenta e la borsa di studio per l’Università estiva della cittadina magiara, ma non era bastato a mettermi in grado di capire né di farmi comprendere nella lingua di quel paese. Me la cavavo con l’inglese e se questo non bastava aggiungevo il latino. Non avevo buttato via del tutto l’abito letterario che avevo scelto fin da bambino, quando mi accorsi che mi stava bene, mi donava.

Me ne ero accorto già in terza elementare quando il maestro Gasperi faceva girare i miei temi come esempi in diverse altre classi.

Poi alle medie la professoressa di latino e italiano, Giulia Gattoni, una bella donna bruna diceva che non aveva mai avuto un alunno intelligente come me. Già allora avevo deciso di continuare a studiare il latino nel liceo classico. Non mi sbagliavo: il latino, poi il greco sarebbero entrati nella mia identità e mi avrebbero aiutato in ogni occasione. Anche lì in Ungheria.

Qualche giorno più tardi, con l’automobile in panne, fui soccorso da un prete che venutomi incontro mi domandò: “loqueris latina lingua?”

 Loquor” risposi, quindi potei avere indicazioni utili nel nostro italiano antico. Chi ha letto la storia di Helena ricorderà che la sera della nostra piccola crisi, quando cercai di fare l’amore senza darle spiegazioni, la bella donna disse “I am not”, poi una parola inglese che non compresi. Le feci segno che non avevo capito. E lei,  bella e fine qual era, chiarì: in latin is materia.

“Magnifica-pensai- davvero, non sei solo materia!”. Poi glielo dissi.

 

Bologna, 9 febbraio 2021 ore 21, 20

giovanni ghselli


p. s.

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[1] Eschilo, Coefore, 1061.
[2] Eschilo, Coefore, 1062

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