mercoledì 17 febbraio 2021

Debrecen 1966. XV parte

Università Kossuth Lajos
L’Università estiva di Debrecen. L’interno e l’esterno. La carezza. Il bacio. L’utilità del latino

 

Avevo bisogno di tempo per rifarmi. Infatti il 16 luglio del 1966 nessuna delle aulenti creature fiorite sul prato, nemmeno una, mi degnò di uno sguardo. Mentre mi avvicinavo,  mi accorsi che quelle ragazze non erano poi tutte così soavi, fresche e aulentissime come mi erano apparse al primo sguardo poco lungimirante, data la mala luce dei miei poveri occhi.

Una zitella già più che matura inarcò le sopracciglia come due corna, estrasse dal rostro una fila di denti aguzzi, drizzò un dito verso il collegio da dove ero uscito indicandolo a un’altra con sdegno da attrice tragica, e le versò nelle orecchie parole sicuramente non buone né belle. Probabilmente non si riferiva a me, tuttavia non osai procedere.

Temevo che quella Erinni, o Arpia  che fosse, avrebbe risposto a qualsiasi approccio digrignando quei denti feroci e lanciando contro chiunque le si accostasse pugni e piedi pesanti come massi scagliate da catapulte possenti.

 

Sicché mi mossi in direzione della linea tranviaria nella ricerca e nell’attesa di qualche visione meno inquietante. Passai davanti alla facciata dell’Università Kossuth Lajos: una villa grande e bella di fine Ottocento, di stile che forse si può chiamare  neoclassico asburgico o Kaiser Königlich, imperial regio, tipico della Kakania.

Mi fermai un momento per osservare intanto l’esterno come preludio. Quindi entrai.

Vidi le aule delle lezioni, il bar dove avremmo preso il caffè negli intervalli,  la grande sala dove avremmo ballato nelle sere delle feste solenni, sempre osservandoci con interesse a vicenda, poiché sicuramente non ero l’unico io, né uno dei pochi a essere andato là proprio per cercare amicizia e amore , anche se, forse, ero stato il solo a dichiararlo appena arrivato facendomi compatire  probabilmente.

Sapevo già che Eros prepara tali luoghi di incontro tra noi umani per renderci amici o amanti, diventando nostra guida nelle feste, nelle danze, nei sacrifici[1]


Mi diedi a osservare ogni cosa con attenzione cercando di cogliere segni latori di significato per il seguito della mia vita.

 Nel mezzo della grande villa c’è un vasto cortile, così lo chiamano loro, in lingua ungherese díszudvar, precisamente “cortile d’onore”, una sala enorme che va dal pavimento all’altissimo soffitto dell’edificio occupandone la parte centrale. Le ali sono costituite da servizi vari situati nel piano interrato e da una quarantina di aule disposte sui quattro piani ai quali si sale per grandi scale di pietra. Le robuste ringhiere delle munumentali scalèe, i parapetti e le balaustre, alcuni balconi e le tante lapidi incise con nomi di eroi e di poeti magiari, a partire dal poeta eroe Petőfi, che tappezzano i muri, tutto questo forma il confine del grande vuoto centrale dove vaneggia l’immenso salone nel cui fondo ogni anno, all’inizio e alla fine del corso, si celebravano le due feste serali più importanti e solenni: Ismerkedési est, sera della conoscenza e Búcsú est, sera dell’addio. 

 Il megaron quella mattina era stato in parte già preparato per la serata iniziale. Ci avevano collocato decine di tavoli ai quali avrebbero aggiunto due centinaia di sedie, e, sotto la scalèa due tavolate: una con cibi dolci e salati, l’altra con bevande non alcoliche, alcoliche e superalcoliche.

Ero ancora quasi astemio ma quell’estate mi forzai a bere del vino per infondermi, con l’alcol, il coraggio necessario, che mi mancava, per affrontare il prossimo, massime le ragazze. Si beveva un po’ tutti a dire il vero siccome non ero soltanto io in difficoltà negli approcci, come potei osservare. Il punto di vista sui giovani di mezzo mondo offertomi da questa università estiva mi aiutò a superare i pregiudizi negativi sul mio conto assorbiti dal conformismo provinciale, perbenistico e bigotto della gente frequentata nei precedenti due decenni della mia vita.

I seguenti saranno via via sempre più liberi, quindi meno insicuri e meno infelici. Devo molto a queste antiche borse di studio, doni davvero celesti.


Nel 1966, conciato com’ero,  non trovai l’amore da fare né il sesso, tuttavia qualche passo di risalita lo feci: una brunetta carina e gentile, una ventenne di Kiev, non sdegnò di parlare con me. Una sera arrivai ad accarezzarle le mani con un’audacia che non fu biasimata né provocò la ritrosia della fanciulla inorridita da tanta impudicizia, come temevo e credevo. Pure da così poco presi comunque coraggio.

Avevo capito che in un approccio, se non si attrae a pima vista con l'aspetto, bisogna per lo meno mostrare dei significati suscitando un’idea o un ricordo.

Chi significa niente, continua a imputridire da solo.

Quando il gruppo degli Sciti fu partito, un’altra ventenne, questa un’inglese, si chiamava Elizabeth, si lasciò addirittura baciare. Sentite un po’ come feci, privo di esperienza com’ero.

Andammo a vedere un film. Usciti dal cinema dove la Britanna aveva appoggiato la testa sulla mia spalla destra riempiendomi di commosso stupore, lanciai nervosamente la scassata Seicento verso il margine occidentale del grande bosco; arrivati che fummo, frenai di colpo davanti a un albero antico, spensi di scatto il motore, e senza dire verbo né guardare in faccia la ragazza, mi piegai verso di lei e la baciai sulla bocca. Questo fu il mio debutto nel gesto commovente di due persone destinate alla morte e alla putrefazione.

Dopo questo contatto divenni curioso della sua anima e continuai a frequentarla.

Quella notte ero assai contento di un avvenire vago, eppure non più del tutto vuoto di promesse. Consideravo Elizabeth la compagna di quanto restava di quel mese in terra magiara se non di tutta la vita, e la portai a vedere la campagna con la scassata Seicento. Una volta questa rimase senza benzina in un villaggio non lontano dal confine sovietico. Ci vennero intorno alcune persone curiose di quel veicolo senza fiato e senza cavalli. Non conoscevano l’inglese né l’italiano, né noi due riuscivamo a spiegarci con il nostro poverissimo ungherese. A un tratto provai a domandare -loqueris latine? Uno di loro, forse un prete spretato, rispose Ita, loquor.

Riuscimmo a farci capire e venimmo aiutati. Sicché provai l’utilità pratica dei miei studi di lettere antiche e sentìi la solidarietà della coppia, un fatto non ovvio, tanto è vero che ne ho fruito poche altre volte in questa mia vita mortale: più frequentemente la compagna di sventura si lagna o lancia aspri rimbrotti, senza dare aiuto. Soprattutto se è italica e viziata da maschi imbecilli. Elizabeth non si lamentò, né mi rimproverò, ma si adoperò con tutti i mezzi fino a collaborare al trasporto del bidone poiché la tanica io non l’avevo. Britanna gentile, solidale, amica.

Per antitesi ti anticipo lettore che intorno al 1990 sarei andato in Grecia in bicicletta con Fulvio e una ragazza italiana. Sbarcammo a Igoumenitza e facemmo la salita che porta al santuario antichissimo di Dodona per interrogare le querce vocali e profetiche. Ebbene la compagna di quell’estate faticava molto e sbuffava sulla dura salita. La spinsi da dietro con la mano destra appoggiata sulla sua schiena per diversi chilometri con una fatica titanica. Credete che arrivati in cima mi abbia ringraziato? No: mi maledisse. L’amico Fulvio trasecolò nella boscaglia.

Le querce avevano dato questa risposta chiarissima.


Tornai sull’ingresso.

Davanti alla facciata c’è una grande vasca rettangolare con al centro una  fontana vivace che lancia nel cielo zampilli dove  di giorno si specchiano i raggi del sole con innumerevoli sorrisi. Nei giorni successivi mi sarei fermato a osservare quella vasca anche di notte quando l’acqua, sprizzata in alto e illuminata da fasci di luce variopinta, fa  piovere gocce multicolori sulla vasca e sulla terra, mesta dal tramonto all’alba per la sua condizione di vedova che la graziosa luna e tutte le vaghe stelle non bastano a consolare dell’assenza notturna del radioso marito. Tutto l’ambiente sarebbe diventato il tempio dove vidi l’inizio delle mie gioie. E, grazie a Dio, non ne ho ancora visto la fine.

Qualche anno più tardi l’aspra zia Rina volle profanare questo mio sentimento del santo e del  sacro dicendo che dovevo perdere il vizio di recarmi “in quel casino di Debrecen”.  Era il capo della casa di Pesaro tanto che la madre la soprannominava “badessa”,  e considerava empia la mia religione e da sconsacrare gli altari dove suo nipote pregava offrendo sacrifici agli dèi: Zeus, Apollo, Elio, Dioniso, Eros  non senza Priapo.

Dèi per niente “falsi e bugiardi” come sosteneva la zia autorizzandosi con un  poeta grande sì, per carità, eppure, e pure completamente pazzo.

 

Bologna 17 febbraio 2021 ore 17, 56 giovanni ghiselli

 

p. s

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[1] Cfr. Platone Simposio, 197d

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