mercoledì 17 febbraio 2021

Debrecen 1966. XVI parte

Csillik Péter, Debreceni Nagyerdő
La grande foresta di Debrecen


Dopo avere osservato  il luogo dove avevo riposto la speranza del mio risorgimento, uscìi dall’Università e mi incamminai per il bosco che da qualche sentiero era segnato. Era una grande foresta di querce dall’altissima chioma e di bassi cespugli, Nagyerdő la chiamano loro. E’ davvero grande (nagy), folta e bella, tanto da farmi venire in mente “la divina foresta spessa e viva” del paradiso terrestre di Dante[1].

Notai coppie di innamorati dai sorrisi contenti e dalle voci sommesse, quanto diversi dai rumorosi turisti tesi a declamare per fare sapere a tutti quanto si divertono nella strameritata vacanza.

 Sicché non rimpiangevo più l’estate di Pesaro confusa e assordata, pure assai meno della costa romagnola gremita di vacanzieri amanti del caos che poi è il vuoto dove volteggiano i mostri ibridi.

Mi guardavo intorno con l’attenzione che si presta a un mondo nuovo nel momento della scoperta: osservavo gli alberi antichi dalle radici  giganti, dal fogliame aereo, i cespugli bassi dalle ombre dense, l’erba fitta costellata di fiori variopinti, come le ragazze sul prato ignare di me. Notai dei gambi dritti come falli di maschi bisognosi di amore.

 

Non si udivano rumori molesti di automobili o motociclette che allora in Ungheria scarseggiavano e comunque eano escluse dalla grande foresta circondata dalla linea del tram numero uno, dai passaggi frequenti ma silenziosi.

Sicché si potevano ascoltare le voci della natura.

Udivo gli uccelli fischiare contenti, le cicale stridere pazze di sole, i batraci gracidare da un laghetto situato al centro di una radura assolata.

Volavano  sciami di farfalle dai vari colori e tante libellule azzurre. Come mi avvicinai all’acqua, vi saltarono svelte le rane scattando come molle non più compresse. Nel lago nuotavano piccoli pesci rossi e alcuni neri un poco più grossi: gli uni e gli altri aprivano  e chiudevano fequentemente la bocca muta, come tante persone vaniloquenti.

Tutto era pieno di significati. Dovevo legittimare la mia vita togliendola dal pantano dove era caduta infangandosi e peggio: dovevo associarla di nuovo a una realtà superiore fatta di studio, di amore, di sport. Quel mio ultimo sembiante, offeso da me stesso per primo e poi da tanti altri, era una maschera orrenda che dovevo buttare via  perché nel volto si potesse vedere la mente e il cuore che rimanevano dentro di me pur troppo celati. “Mevga" ejn touvtoi" qeov", oujde; ghravskei Grande c'è un dio in loro e non invecchia” ricordai sorridendo[2].

Quel laghetto brulicante di vita era accarezzato dalle foglie e dai rami sottili dei salici ai bordi, e varcato  nel mezzo da uno stretto ponte di legno: vi sarei passato sopra tante volte, in compagnia degli amici, poi delle amanti, con  lieto rumore di passi contenti, di giorno per andare nella piscina, di notte per entrare in un locale sull’altro lato: il Vecchio Vigadó da dove si diffondeva e aleggiava nel bosco la musica dei violini e dei cembali che si accordava con il versi dei grilli e delle rane lontane, con l’arpeggiare dei rami mossi dal vento che di tanto in tanto faceva oscillare la vasta chioma degli alberi antichi scoprendo la luna con le stelle del cielo. Ed erano tutti presagi  d’amore.

Sentivo e già capivo che ero arrivato in un cosmo ben disposto, idoneo alla mia natura vera che non avrebbe cozzato con il suo ordine provocando la scintilla e il fuoco della tragedia come aveva fatto con il mondo caotico dal quale venivo.

giovanni ghiselli      

 

Nota

[1] Purgatorio, XXVIII, 2

[2] Sofocle, Edipo re, 872.

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