venerdì 19 febbraio 2021

Debrecen 1966. XXII parte. La mensa di Debrecen. Il pasto doloroso e vergognoso

con Fulvio a lezione
Sollevai il corpo gonfio e mi mossi verso la mensa situata di fianco al collegio numero uno, l’alloggio dei Russi e dei Finlandesi, più femmine che maschi a dire il vero, dato che eravamo tutti letterati, ossia studenti di materie amate e studiate dalle donne più che dagli uomini, come si diceva allora, e forse ancora si dice. Io credo sia vero.

 Le lettere sono preferite ai numeri dalle donne e dai donnaioli, che sono tali in quanto attirati da creature simili a loro, siccome dotati di una sensibilità più fine e forte rispetto a quella del cosiddetto vero maschio il quale  passa le serate a guardare le partite di calcio con i suoi eroi che sgambettano, oppure ammazza il tempo giocando a carte con altri maschi. Costui spesso, in realtà è un omosessuale per lo meno latente. Non pochi tra i mariti scimuniti che riempiono le serate con il football e la biscola o il biliardo si sono ammogliati, a parer mio, per dissimulare la loro omosessualità. 

Perdonate questo mio strano pensiero. Ho voluto rispondere a chi dice di me che sono una donna poiché non mi interessa il calcio, come non piace alle femmine appunto, e ho giocato a carte solo un paio di volte in vita mia, da giocatore trasognato1, quindi mai più. Pensavo troppo alla donna “mistero senza fine bello!”, enigma simile a quello della vita, particolarmente questa qui vissuta da me come mi pare.

Ma torniamo al giorno di quel luglio lontano. Entrai nella mensa.

I tavoli erano già tutti pieni. Mi aggirai tra i banchettanti lieti, ansiosamente, già quasi certo dell’esclusione, meritata del resto dal ritardo accumulato per l’empio aperitivo, nel tempo che ora chiamano happy hour ed è invero qualche cosa di turpe se tale antefatto è un antimisfatto seguìto da un pranzo o da una cena pomposa, magari non senza una copiosa merenda nel mezzo. L’obesità non viene per caso, né senza colpa.

La snellezza è una forma di pulizia oltre che di bellezza.

 I porci ingrassano, i levrieri no.

Dopo qualche minuto di ispezione angosciosa, supplichevole,  mi accorsi con dolore che i miei tre contubernali non mi avevano tenuto un posto al tavolo dov  erano seduti contenti, incuranti della parola data e di me. Il loro quarto commensalle era uno sconosciuto più attempato di noi. Forse un professore di Debrecen. “Maledetti!”, pensai,  provando delusione e paura dell’isolamento per tutto il mese seguente. Fui tentato di ripartire tosto per Pesaro.

Se non avessi avuto il vizio del cibo eccessivo, avrei colto l’occasione per saltare il pranzo e non peggiorare il mio aspetto e il mio umore; invece, ricevuta questa piccola frustrazione che la mia anima vuota e malata ingrandì a tragedia o quanto meno a infausto annunzio di futuri danni, la fame nervosa aumentò. Mangiare in quella maniera disumana era un tentativo, il peggiore possibile, di riempire il vuoto di affetti e di interessi nel quale precipitavo da anni, come i mostri del Caos primogenio.

Mi mancava il rispetto che ogni figlio della luce deve a se stesso. Insisto su questo poiché. passati quasi  cinquantacinque anni da quella lugubre mattina, vedo l’obesità diffondersi tra uomini, donne e bambini che mangiano ossessivamente a tutte le ore senza praticare alcuna ascesi somatica, né, tanto meno, spirituale. Condannerei a multe pesanti i genitori grassi che spingono  i figli già obesi a mangiare. Se la multa non bastasse, toglierei la dignità genitoriale a tali diseducatori. L’obesità è contrassegno di infelicità, di caos, di vuoto dell’anima.

 Ma torniamo al tragico, immeritato, colpevole pranzo del 16 luglio del 1966.

Il mio vuoto spirituale agognava l’ingozzamento, sicché continuai ad aggirarmi tra i tavoli con l’anima in pena e l’aria implorante, sperando di sentirmi chiamare o almeno di trovare una seggiola vuota. Fulvio, da gentiluomo qual è, si accorse della mia difficoltà, mi raggiunse e si scusò dicendo che non era stato possibile tenere occupata la quarta seggiola, siccome una cameriera imperiosa aveva imposto a un romano appena arrivato, Ulderico, di sedersi al loro tavolo. Comunque dopo mangiato ci saremmo trovati tutti in piscina. Non dovevo mancare. Gentile, gentiluomo di Parma. Nell’età tragica della mia vita, Fulvio mi ha aiutato come nessun altro. Basta poco per dare una mano a un infelice, eppure quel poco i più non me lo hanno dato. Se ci sono state delle mani, hanno cercato di spingermi sempre più in basso. Dal dolore comunque ho imparato assai. Devo parte della mia intelligenza a tanta sofferenza.

Più avanti Fulvio mi aiutò ancora quando disse che non capiva perché mi lamentassi tanto, dato che non mi mancava niente: se avessi avuto un male incurabile, mi avrebbe compatito, ma poiché non l’avevo, se avessi continuato a lagnarmi, mi avrebbe preso prima sberle, poi a calci. Sacrosanta, meritata minaccia.

Immeritato invece era il mio pranzo che avrei dovuto saltare. Ecco perché non avevo trovato il posto che speravo.

Mi era stato mandato un segno da Dio: diceva, chiunque egli fosse, che non dovevo mangiare, che ingozzarmi era il maximum scelus per me,  ma io non colsi l’avvertimento, siccome avevo ancora Satana con tutto l’inferno dentro la mia disgraziata persona.

 Ringraziai Fulvio, gli dissi che sarei andato in piscina verso le due e mi allontanai rinfrancato. Quindi trovai una seggiola libera a un tavolo di gente straniera dall’incomprensibile idioma. Uzbeki forse. o Circassi, o Ciuvassi. Sedetti e, senza nemmeno abbozzare un saluto,  chinai la testa sul piatto, mi ingozzai in gran fretta di enormi patate unte, di  carne con sugo grasso dove inzuppai  pure non piccoli tozzi di pane lasciati lì da qualcuno e sfuggiti al cane che si aggirava famelico. Glieli avrei strappati dal ceffo ingordo se avesse provato a saltare per involarmelo. Il ceffo mio era ancora più ingordo del suo.



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1 Cfr. G. Gozzano, La signorina Felicita, ovvero La Felicità v. 107

2 Gozzano, poesia citata sopra, v. 269

3 Dante, Inferno, XXX, 102

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