Il Libro di Giobbe Questo libro dovrebbe risalire al V sec. a. C. Ne riporto una massima: "Felice l'uomo che è corretto da Dio"[1].
Un’eco di questa teoria si trova nel Cimbelino[2] di Shakespeare, quando Giove nella teofania che lo vede discendere cavalcando l’aquila fra tuoni e fulmini (l’equivalente pagano del “turbine” dal quale Dio parla a Giobbe), disegna con fermezza il confine fra le competenze umane e quelle divine, formulando la legge che governa l’insondabile giustizia e la segreta caritas provvidenziale della divinità:
“Non v’angustiate di pene mortali:/non è vostra, ma nostra la cura./Chi più amo più metto alla prova della croce,/per far che i miei doni, più attesi,/siano ancor più graditi. Tranquilli,/la nostra grande divina potenza/solleverà vostro figlio (Postumo Leonato) umiliato”.
Cimbelino V, 4, 99-103: “Be not with mortal accidents opprest;/No care of yours it is; You know ‘tis ours./Whom best I love I cross -(crux); to make my gift,/The more delay’d - (dilatus - diffĕro), delighted (delecto-delectatus). Be content;/Your low - laid son our godhead will uplift”.
“Questa non è più soltanto la comparsa in scena del tradizionale, risolutorio deus ex machina. Si tratta, invece, di una vera e propria teodicea che giustifica la divinità per la presenza del male. Le “pene mortali” sono preoccupazioni esclusive della divinità, e gli uomini non se ne devono angustiare. “Chi più amo, più metto in croce”, sembra dire Giove usando la parola “cross”, e offre la chiave teologica di tutto il dramma; la felicità si ottiene soltanto dopo grandi, dolorose prove, ed è un dono gratuito di Dio, che lo ritarda perché gli uomini vi trovino ancor maggiore diletto”[3].
Cimbelino è un re di Britannia, Imogene sua figlia, mentre Cloten è il figlio di primo letto della regina. Notevole il canto funebre per la principessa creduta un ragazzo e rimpianta come morta: “non devi temere più la vampa del sole, né gli aspri furori dell’inverno, hai assolto il tuo compito nel mondo, sei andato a casa e hai avuto la paga.
Golden lads and girls all must/as chimney - sweepers, come to dust” (IV, 2, 262-263), ragazzi e ragazze d’oro come gli spazzacamini ritornano a essere polvere.
Seneca nel De providentia[4] trova un significato positivo non solo nel lavoro ma pure nelle disgrazie (incommoda), nei dolori e nelle perdite, quali prove per esercitare e temprare la virtus: "Marcet sine adversario virtus" (2, 4), senza un avversario la virtù marcisce; e Dio nei confronti degli uomini buoni conserva l'animo di un padre, li ama con forza, e ha questi progetti: "Operibus, inquit, doloribus, damnis exagitentur, ut verum colligant robur" (2, 6), con lavori, disse, dolori, perdite, si affannino per raccogliere la vera forza. "Languent per inertiam saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt", infiacchiscono nell'ozio i corpi ingrassati, e non solo per la fatica, ma per il movimento, e per lo stesso peso di sé vengono meno.
Seneca offriva ai cristiani la prefigurazione del martire scrivendo: ecce par deo dignum: vir fortis cum fortuna mala compositus, utĭque si et provocavit (De providentia, 2, 89).
Poi Minucio Felice (II-III sec.): quam pulchrum spectaculum Deo, cum Christianus cum dolore congreditur (Octavius, 37, 1).
giovanni ghiselli 1 febbraio ore 11 e tre minuti
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