venerdì 12 febbraio 2021

Debrecen 1966. VI parte

La frontiera ungherese. La fotografia. Budapest


Arrivai alla frontiera ungherese che c’era il sole. Mi chiesero se avessi una fotografia per il visto. Non l’avevo. Me ne fecero quattro dopo avermi messo seduto davanti a un muro. Me ne lasciarono una. La conservo. Ci vedo la faccia ombrosa di un ragazzo occhialuto, grasso, foruncoloso. Brutto, anzi imbruttito assai.

Con l’anima piena di piaghe.

 Con un aspetto tanto malconcio, da Giobbe, tutto ulcere, non sarebbe stato facile risalire la china. Dovevo modificarlo. Rimpastarmi, come diceva la madre mia benedetta.  Liberarsi da quel laido groviglio di tormenti, dai ceppi che mi stringevano al suolo rendendomi esclusivamente tellurico e violentando la mia natura. Dovevo evadere da quella nube di angoscia che mi toglieva la visione della luce e del cielo.

 Ci voleva l’ abbronzatura,  l’ornamento del sole che accarezza il mondo e il nostro viso con i suoi raggi proprio come fa Apollo quando con il plettro tocca le corde della lira, poi bisognava aggiungere l’altra cosmesi ottima: quella dello sport:  corse, bicicletta, nuoto, e digiuni da asceta. Quindi le lenti a contatto. Dovevo ritrovare il compiacimento e l’orgoglio di me stesso, la dignità antica che avevo quando studiavo al Mamiani e vincevo tutte le gare. Riprendere a primeggiare dovevo.

Generosamente però, non egoisticamente come prima della caduta.

Tornare all’accordo con la vita, la mia e quella delle persone buone.

Dopo il liceo mi ero degradato con il cibo, con la pigrizia e con le lamentele, querimonie plebee, anzi servili.

Poi lo schifo degli altri, aliorum fastidium,  genitivo soggettivo e oggettivo, e le solitudini da anacoreta sordido, mica santo.

 

Ripartii consolandomi con il pensiero che in fondo avevo già dato parecchi esami e quasi tutti con ottimi voti. Questo non bastava: anche tanti imbecilli  e ignoranti li prendevano da professori che a loro volta, nella maggior parte dei casi, erano solo dei funzionari della scuola.

Per farmi coraggio, pensai che il mio sovrappeso era di una ventina di chili, non di trenta: non ero ridicolo, non indicavano a dito la mia pancia. Quand’ero vestito quasi non si notava. Bastava che non mi spogliassi. Dunque potevo rifarmi. Il fondo oramai, il mio punto più basso l’avevo toccato. Molto presto sarebbe stato tempo di risalire. Forse era già tempo.

La  caduta anzi doveva diventare uno stimolo energico per salire più im alto rispetto al punto dal quale ero caduto.

 

Arrivai a Budapest verso le due del pomeriggio. Mi fermai un’ora per mangiare. Non avrei dovuto. Non ero ancora maturo per la risalita. Avevo bisogno di una mano soccorrevole. L’avrei trovata negli italiani di Debrecen, soprattuto in fulvio. Sarei diventato capace di saltare il desinare del tocco o la cena serale.

 

La città divisa in due dal Danubio perfino nel nome mi sembrò enorme e dispersiva, mentre di fatto è bella e magica non meno di Praga. Ma avevo gli occhi offuscati da tante paure. Non trovavo la strada per Debrecen.

Dovetti chiederla  una decina di volte. Finalmente riuscii a infilarla. Era, è, la Üllői út, la numero 4. Seguendola per 220 chilometri si arriva a Debrecen. La terra del mio riscatto, speravo non senza ragione. Erano passate le quattro. In quel momento prevaleva l’angoscia di non arrivare prima del buio. Il sole non era più tanto alto da rassicurarmi. Calcolai che il tramonto da quelle parti cadeva mezz’ora prima che da noi: entro le otto il dio[1] sarebbe sparito alle mie spalle, entro le nove sarebbe stato buio pesto. Calcolare, conteggiare, riflettere mi è sempre servito a minimizzare l’angoscia, a difendermi dai colpi bassi della fortuna e dalle fregature dei farabutti.


Bologna 12 febbraio 2021 ore 21, 22.

 giovanni ghiselli


p. s.

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[1] Lo ministro maggior della natura-che del valor del ciel lo mondo imprenta-e col suo lume il tempo ne misura” (Dante, Paradiso, X, 18-20)

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