giovedì 25 febbraio 2021

Le estati tra 1967 e il 1971. Capitolo IX. L’arrivo a Carmignano di Brenta

Nel volgersi delle vicende c’è molto di ciclico. Tutto scorre e interferisce insieme. 

Nella carta stradale vedevo il paese, ma non sapevo individuare la strada migliore per arrivarci con il metodo giusto, sicché mi rivolsi al benzinaio, uno del luogo che peraltro non si raccapezzava, non sulla carta mia. Quindi andò a prendere la sua, più particolareggiata.

“Oddio - pensai - come deve essere piccolo e immensamente sperduto questo Carmignano di Brenta”.

Tornato, il benzinaio mi suggerì di passare per Cittadella : non era la via più breve ma la più facile e mi conveniva, dato che non ero pratico della povincia. Sicché uscii dall’autostrada, mi aggirai dentro Padova, trovai l’indicazione e mi avviai verso Cittadella. Percorsi quei trenta chilometri con la paura costante di fuorviarmi e traviami, come mi era accaduto nella vita finito il liceo. Finalmente lessi il nome della piccola città murata. Poi una scritta luminosa: “Caron”. Le mura merlate erano illuminate.

“Ecco la città di Dite e le sue meschite vermiglie” [1], pensai.

Entrai nel borgo invece piuttosto buio e domandai di Carmignano.

“Vada verso Vicenza per cinque chilometri” mi dissero, facendo segni coi dossi della mano. “Gesto purgatoriale” [2], pensai. Mi tornò in mente quello del ’66 nell’ospedale di Debrecen.  Mi chiesi pure da quali vizi e peccati dovevo mondarmi in quella terra di relegazione.

Passai il ponte sul Brenta o “la Brenta” come la chiama Dante [3].

Avrei dovuto insegnare soprattutto italiano a dei bambini in un paese dove  si parlava dialetto come avevo capito dai Veneti che avevo interpellato. Forse per questo mi veniva spesso in mente il maestro della lingua nostra. Finalmente vidi il cartello con su scritto il nome lungo del paese che andavo cercando. Mi sembrò lungo anche il borgo stesso disteso e addormentato nel buio. Percorsi una strada rettilinea di due o tre chilometri. Era fiancheggiata da case scure, non accostate tra loro ma spaziate da orti e giardini. In fondo c’era una piazza quasi tutta occupata da una chiesa dalle porte chiuse: una cupa fortezza di Dio con la scritta VENITE ADOREMUS stampata sul frontone a lettere giganti.

“Cercherò di insegnare anche un po’ di latino per non dimenticarlo-mi disso- e non scordarti del greco, dai l’abilitazione il prima possibile”.

Speravo di non restare a lungo in quel paese di frontiera. Mi venne in mente Giovanni Drogo e la fortezza Bastiani prospiciente il deserto dei Tartari. Continuavo a indossare l’abito letterario che mi ero cucito addosso fin da bambino da quando maestre e maestri avevano cominciato a elogiarmi per i temi.

Bon è solo un vestito: è una parte della mia identità.

“Fuori non c’era anima viva. “Gli uomini hanno rinchiuso le donne nella chiesa, poi sono andati a bere e  giocare a carte in osteria” pensai ricordando i luoghi comuni sentiti sui Veneti. In effetti ne avrei incontrati diversi  parecchio differenti da questo stereotipo. Nella piazza confluivano altre due vie.

Imboccai la strada larga e dopo cento metri vidi un edificio piuttosto piccolo con la scritta “Scuola Media”. Non era illuminata ma potei leggerla perché sull’altro lato c’era un edificio più grande con molte lettere luminose che rischiaravano il buio: “Albergo Bar Ristorante Centrale”.

Mi venne in mente la luce delle lettere Aranybika che mi accolsero a Debrecen tre anni e tre mesi prima. “Buon segno, pensai, qui farò altri progressi. Crescerò ancora”. Non mi sbagliavo.

Entrai nel bar. Era pieno di uomini che parlavano la lingua dolce, bonaria e un po’ avvinazzata del caro Danilo. Mi piaceva asoltarla: era del tutto comprensibile: sembrava una  caricatura simpatica dell’italiano letterario.

Segno di apertura ai “foresti”. Il dialetto bolognese per esempio mi risultava incomprensibile.

L'Adige ha fermato i barbari mi spiegò una sera Tullio De Mauro.

Insomma linguisticamente mi trovai subito a mio agio. Alla barista alquanto carina chiesi se avessero una stanza singola per una notte.

Rispose che era tutto occupato e gentilmente se ne scusò.

La guardai con aria interrogativa, forse anche un poco implorante.

Allora la donna, per sua umanità, mi consigliò di andare a Cittadella, non lontano, dove avrei potuto dormire in un albergo grande, alto quasi quanto un grattacielo: lì c’era posto di sicuro. Non potevo sbagliarmi: era sulla strada, a sinistra, poco prima delle mura: Motel Palace.

Non so perché ma ripartire da Carmignano non mi dispiacque.

Ripercorsi la via in senso inverso. Ero incoraggiato dalle coincidenze con l’arrivo a Debrecen dove nel luglio del ’66 era iniziata una vita nuova per me. "Comincia un nuovo ciclo triennale - mi dissi - rebus cunctis inest quidam velut orbis[4]. Quando si ha del carattere, ci si ripete, eppure ci si rinnova."


giovanni ghiselli


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[1] Cfr. Dante, Inferno, VIII, 70-72

[2] Cfr. Dante, Pugatorio, III, 102

[3] Inferno, XV, 7

[4] Tacito, Annales, III, 55. In tutte le vicende c’è qualche cosa di ciclico

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