martedì 16 febbraio 2021

Debrecen 1966. XIV parte

Russo, Ragazze sul Prato Fiorito
Il prato tra i due collegi dell’Università di Debrecen

 

Sistemai alla meno peggio la roba, piuttosto brutta poiché in quel tempo le imperiose donne di casa mi avevano concesso, per carità, la vecchia automobile e un poco di soldi, però continuavano a mandarmi in giro malconcio, quando invece la mia insicurezza tragica avrebbe tratto conforto dal potermi presentare meno malmesso. Mentre  mi avviavo a uscire dalla stanza, salutai i tre compagni dicendo che ci saremmo rivisti all’ora di pranzo. Fulvio ricambiò cordialmente e sobriamente con “Ciao gianni, ci vediamo più tardi”, rendendomi lieto solo con il nominarmi, siccome allora ero disgraziato al punto che quasi nessuno mi chiamava per nome quando esigeva la mia attenzione o voleva impormi dei servigi, ma usavano il cognome o nomignoli spregiativi cui rispondevo tanto ero precipitato in basso, spinto da vari colpi, compresi quelle che mi infliggevo da solo. Erano i pizzicotti della morte e oramai volevo sostituirli con quelli di un’amante.

Luigi mi salutò con un triplice ciao e con gesti teatrali della mano sinistra, dandomi altro coraggio; Danilo accompagnò la mia uscita con una fragorosa girandola di “caro da Dio, Dio caro, vieni benedetto, vieni a pranzo con noi, così  faremo la bevutina della conoscenza degli scavezzacolli bevitori. Dobbiamo festeggiare e consacrare con Dioniso  questo incontro benedetto  da Dio!” Fu in quel momento preciso che cominciai a vedere il lui il tipo o la maschera tipica del veneto, vini avidum genus, ma non mi dispiacque, e anzi continuavo ad apprezzare in lui una forma gioiosa di ebbrezza, messa per giunta in rilievo dal rosso del volto che credevo acceso dal sole.

Uscii dal collegio per esplorare l’ambiente e guardare le studentesse arrivate da ogni paese non fascista d’Europa. Mancavano infatti solo le Iberiche e le Greche, non invitate nella repubblica popolare Magiara per via dei loro regimi. Speravo che i miei sguardi da accattone, mendicante dell’amore, venissero contraccambiati. Come si raccomandavano gli occhi con tutta la loro miopia! Sapevo che l’avverarsi di quel desiderio era possibile solo molto remotamente, ma ero pur arrivato in un mondo davvero strano e remoto, un luogo dove mi avevano invitato a pranzo chiamandomi per nome, trattandomi da essere umano, non da bestia sacrificale  o da mostro da rigettare nell’inferno come facevano quasi tutti negli ultimi anni, perciò nulla era del tutto impossibile, nemmeno che una donna bella e fine guardasse me imbruttito e avvilito parecchio.

Ma le speranze vennero contraddette dal fatto che le fanciulle italiche, galliche, o scitiche, o iperborèe che fossero, non mi guardavano punto, né mi facevano torto siccome avevo la pancia, una linea da pinguino rimbecillito, un’espressione torbida dietro gli occhiali con lenti simili a fondi di bicchiere da cucina povera, i capelli luridi misti a festuche e forse pure a zecche, e la pelle tutta foruncolosa. Per giunta avevo indosso una maglia rossa sgualcita e sdrucita, il purpureum vestimentum di chi è stato maltrattato a lungo dagli uomini e dalla vita. Non avevo in testa la corona spinea del Cristo, tuttavia un’anziana di passaggio, forse una professoressa, indicandomi a un tale e disse: “Ecce homo[1]. Non me ne offesi, anzi, nell’ottimismo del momento, pensai “ buon segno: significa che tra pochi giorni risorgerò”.

Non mi guardavano dunque le giovani donne, ma io le ammiravo lo stesso. Mi venne in mente “non io, non già ch’io speri vi ricorro allo sguardo”[2], ma ricacciai presto il pensiero malato e lo corressi con il farmaco buono  che Fulvio, Luigi e Danilo mi avevano donato.

Guardando le femmine umane pensavo: “la terra è in mezzo alle stelle e qui sulla terra ci sono tali creature variopinte come la vita, profumate non meno dei fiori che costellano i prati. Non cederò, non rinuncerò mai alla speranza di partecipare a tanta bellezza, a tanta grazia di Dio. Mi erano venute in mente di nuovo queste due parole del’irriducibile eroe figlio di Tetide,  cedere nescius. 

 

Sul prato davanti al collegio si trovava un gruppo di fanciulle. Erano giovani femmine umane policrome poiché avevano non solo gli abiti estivi variopinti con diversi colori, ma di colori diversi avevano anche i capelli folti e le epidermidi, pur tutte lisce e splendidamente abbronzate.

Le ragazze sedute o distese, o inginocchiate, o erette sull’erba venivano da varie parti d’Europa: dalla gelida Scandinavia, dalle grandi distese sarmatiche, dalle bianche, piovigginose scogliere del nord, dalle calde, brunite penisole e isole del mare nostro solare. “Divers - pensai - ma belle son tutte kalai; de; pa'sai[3], creature di gioia e di poesia”.

Quel prato così variegato dalle ragazze e illuminato con forza dai raggi del sole, quel verde screziato dai fiori, perfino le dense ombre meridiane stampate dalle femmine stesse, dai bassi cespugli e dalle alte querce, alberi antichi, di maestà dodonèa, vocali e profetici quando le foglie venivano mosse da un  vento di paradiso che poi accarezzava anche i lunghi capelli  delle fanciulle simili ai fiore del croco o del giacinto[4], tutto quel luogo sarebbe diventato nella memoria uno dei  sacrari del mito, della poesia di Debrecen e della mia gioventù.

Lì avrei giocato a palla e mi sarei abbronzato a mezzo il giorno dopo le ore di lezione, lì avrei cantato con gli amici e le amiche  sotto la luna rugiadosa che cospargeva di perle le nostre teste contente, di lì avrei guardato le donne belle e fini che volevo tutte per me: Eva, Helena, Kaisa, Paivi, prima con ansia, poi rassicurato dal loro comportamento, con gratitudine a Dio, a me stesso e soprattutto a quelle creature. Ed ero felice.

Ma  questa meravigliosa situazione dovevo provocarla e costruirla con il tempo utilizzando le occasioni, impiegando l’intelligenza e la volontà.


Giovanni ghiselli 17 febbraio

 



[1] Cfr. N. T. Giovanni 19, 5

[2] Cfr. Leopardi La sera del dì di festa,  20

[3] Odissea, VI, 108

[4] Cfr. Odissea, VI; 229-231

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