lunedì 22 febbraio 2021

Le estati tra 1967 e il 1971. Capitolo II. Il Sessantotto

Don Lorenzo Milani
Andai a Praga attraverso uno scambio di posti tra collegi universitari.


Gli studenti cecoslovacchi vennero per una settimana nel collegio Irnerio di Bologna mentre noi “irneriani” andammo in un alloggio dai colleghi della città ancora magica.

In quella primavera fatata tutti noi giovani universitari  si pensava e parlava politicamente. Il 1968 fu uno degli anni in cui la gioventù ebbe fiducia in sé stessa e nel poprio futuro.

Ogni discorso era politico: ossia relativo alla polis, alla comunità. Si viveva da comunisti, nel senso più vero, etimologico, ossia da non egoisti. Aiutarsi a vicenda era perfino una moda per molti. Tanti dei giovani di quell’epoca d’oro, appena la moda è passata, sono tornati egoisti.

Non pochi d’altra parte sono già morti anche fisicamente.

 Io no: avevo capito che “politicamente” significa anche umanamente e felicemente. Nelle assemblèe del movimento studentesco cui partecipai a Bologna, a Roma, a Milano, non avevo i mezzi culturali per parlare, siccome mi mancava la preparazione necessaria. Il mio sapere era limitato ai tecnicismi del greco-latino e alle date della storia antica, insomma a quanto avevo studiato per superare gli esami. Frutto insipido di uno studio nozionistico, pallido frammentario, superficiale, privo di visione d’insieme, estraneo alla vita e alla sapienza.

Questa sa di vita e potenzia la vita.

La sofiva non mi era stata insegnata né mi avevano invogliato a impararla per mio conto. Nessuna forza nuova era sgorgata dentro di me in quella scuola di poco sapere e di nessuna sapienza. Energie nuove

avrei sentito nascere dentro di me in seguito al contatto con  gli allievi quando iniziai a insegnare prima nella scuola media, poi nei licei.

 Devo molto ai miei allievi.

Nelle assemblee  non prendevo la parola che non avevo pronta, però ascoltavo quelli dalla preparazione filosofica e storica, cioè politica e sapevano  parlare appunto politicamente. Allora iniziai a  sensibilizzarmi alla filosofia e alla storia e cominciai a studiarle. In maggio diedi l’ultimo esame: glottologia, quindi preparai la tesi e nel marzo successivo mi laureai. Quindi feci delle supplenze a Pesaro  e in ottobre ricevetti  l’incarico a tempo indeterminato nel Veneto profondo, a Carmignano di Brenta, in provincia di Padova, più vicina però a Bassano, Vicenza e Treviso. Il cuore dunque del Veneto bianco.

Durante le assemblee di primavera mi sensibilizzai anche al problema del metodo del mio prossimo insegnamento, la via (odós) dell’insegnare educando alla vita  che avrei seguito sempre dalle medie alle lezioni nell’alma mater dove insegnavo didattica della letteratura greca nella SSIS frequentata da giovani neolaureati che sovevano imparare a insegnare. Così siamo arrivati al primo decennio del millennio seguente.

Già in quella primavera, fatale per la mia generazione, mi ero reso  conto che il mio metodo non doveva essere coercitivo, dogmatico, autoritario, ma educativo e accrescitivo, basato sul rispetto della persona che non andava trattata male presupponendone la disonestà come avevano fatto con me diversi farabutti  proiettandomi addosso la loro nequizia. Dal movimento del ’68 dunque presi a riconoscere e valorizzare la parte bella e buona della mia persona come, tanto per fare un esempio stravagante, con la bicicletta ho valorizzato le gambe prese da mia madre e da mio nonno materno che vinceva le gare ciclistiche sui colli della Toscana, e con i frequenti lavaggi i capelli che non erano bianchi nemmeno a 70 anni, come quelli della zia materna Giulia. Eredità più preziose dei miseri quattrini.

Fin da bambino ho sempre detestato i controlli sadici, l’autorità irrazionale e inautorevole dei luoghi comuni seguiti dal gregge di chi non è capace o non ha il coraggio di pensare con la propria testa, di crescere fino a diventare se stesso e a rivelarsi qual è sotto la scorza dei pregiudizi e delle superstizioni che le mode, la pubblicità e ogni autorità disumana vogliono imporre a tutti e a ciascuno. In una certa fase della vita è necessaria una rivolta anche contro le imposizioni ricevuta in famiglia fin dall’infanzia. Poi, trovata  l’identità propria e posseduta con sicurezza, si possono e devono recuperare gli affetti per chi ci ha messo al mondo e comunque allevato. Infine quando siamo ormai vecchi e i nostri cari son morti possiamo pensare che  sono vissuti per noi e che ogni nostro progresso, ogni gioia dobbiamo dedicarla a loro con gratitudine.

 

Nelle assemblee studentesche compresi che mi mancava una  cultura politica e critica indispensabile alla vita che volevo fare. Ancora non conoscevo Tucidide, ma più avanti,  insegnando greco dal 1975, avrei avuto  conferma della mia convinzione che chi non prende parte alla vita politica va considerato non pacifico, bensì inutile (oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on) [1].

Eppure quando iniziai nel Veneto, il preside vandeano della scuola media Ugo Foscolo, retrivo e refrattario, mi disse: “ricordi professore che a scuola non si deve fare politica”. Io non gli diedi retta e lui non mi diede “ottimo”, ma solo “valente” un giudizio politico negativo che mi penalizzava nel punteggio, sebbene fossi stato l’unico dei suoi giovani insegnanti a superare lo scritto del concorso per passare alle superiori.

Mi compensò di tanta ottusità la vicepreside Antonia Sommacal che sarebbe diventata una carissima amica, la mia amica più cara anche se  ci davamo del lei.

Era nata nel 1920 ed è morta nel 2005. Mi manca.  Scrivo  queste parole per dirle ancora una volta quanto le sono grato del grande aiuto che mi ha dato in termini educativi e morali. E’ stata un’ottima professoressa nella scuola media di Carmignano di Brenta. Un’educatrice. Io sono stato e rimango un suo allievo. Con altri ex bambini di allora, oramai sessantenni, allievi suoi e miei, la ricordiamo sempre, stimandola e volendole bene.

Lo scrivo perché credo che Antonia da qualche parte ci sia ancora, e non solo dentro di me. E rendo pubblico questo sentimento di grato affetto, di stima totale, sperando che lo leggano quanti l’hanno conosciuta e la ricordino insieme con me.  

 

Nel ’68 dunque ancora non conoscevo il logos epitafios attribuito da Tucidide a Pericle, ma in quei giorni lessi la meravigliosa Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana di quel prete e uomo sublime che fu Don Lorenzo Milani. Mi aiutò a comprendere che educazione è vicendevole promozione umana e culturale tra docente e discente [2], è reperimento di spirito critico nei confronti di ogni moda, luogo comune, dogma contrario alla vita, è apprendimento innanzitutto della lingua [3] che ci permetta di parlare in modo chiaro e profondo. Nel ’68 avevo capito che dovevo procurarmi i necessari mezzi di educazione e di crescita.

 

giovanni ghiselli

 

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1 Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 40, 2  

2 Mutuo ista fiunt, et hominess dum docent, discunt (Seneca Ep.,  7, 8). Anche questo l’ho imparato insegnando

3 Don Milani insegnava tra l’altro che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"Lettera a una professoressa (p. 95) 

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