la corsa, ieri come oggi |
Quando raggiunsi la piena coscienza e il sommo disgusto di tanto male e di tale malvagità verso me stesso, ripetei le parole dette da Nerone in fuga come seppe che il Senato l’aveva dichiarato nemico pubblico: “vivo turpiter, deformiter”. Quindi “ouj prevpei jIwavnnh/, ouj prevpei”[1], aggiunsi.
Poi, però, invece di suicidarmi come fece il matricida, cominciai a mangiare di meno e tornai a correre in qualunque pista trovassi a disposizione, a pedalare la bicicletta in pianura e nelle salite, e a mangiare in modo umano, cioè solo il necessario.
Non esse voracem bona valetudo est et formae dignitas.
Per quanto riguarda la difformità dalla fine dell’imperatore romano, la mia sopravvivenza dipese anche dalla mancanza nelle mie vicinanze di uno come il liberto segretario alle suppliche che aiutò Nerone a morire: “iuvante Epaphrodito a libellis”.
Fulvio viceversa mi aiutò a vivere. Il nuovo amico mi infonderà prima forza e coraggio, poi il sentimento del compito di primeggiare nel fare del bene: lo dovevo a me stesso, date le mie qualità. Amico prezioso. Ancora oggi il ricordo indelebile dell’aiuto che mi ha dato mi spinge a procedere, spesso non senza fatica, su per i duri tornanti di questa gara davvero olimpica per non tornare indietro con passi retrogradi verso lo stato miserando nel quale ero caduto sui ventanni.
Ora c’è la vecchiaia che incalza e cerca di infliggere umiliazioni, ma sono certo che gli dèi premiano le donne e gli uomini buoni mantendoli sani, forti e felici fino alla morte che mi coglierà, spero, mentre corro, o pedalo, o scrivo, o tengo una conferenza o, meglio di tutto, mentre faccio l’amore, d’un tratto, assai dolcemente. Il più tardi possibile però.
Sulla pista dello stadio di Debrecen dunque avrei corso proteso verso le mie donne, per rendermi sempre meno indegno di loro, per le studentesse borsiste all’università Debrecen, le finniche già ricordate, poi per altre, fino alla supplente che era rimasta nel carnaio di Rimini e non mi scriveva: correvo i 5000 metri in meno di 19 minuti per sfuggire alle punture dolorose dell’assillo odiosissimo che mi tormentava perché colei non si curava di me e non mi dava dei compiti.
Allora me li assegnavo da solo.
Le mie pretendenti erano
state dei fiumi, come Acheloo mnhsthvr, di Deianira[2], fiumi e soli, ed erano rimaste tutte poco
tempo con me, e mi andava bene così: siffatte le cercavo perché sapevo che
immergersi due volte nello stesso fiume è impossibile[3], e
pure che il sole è nuovo ogni giorno[4].
Eppure, come vedi lettorem le ricordo constanti, haud immemore mente da
allora. Sempre e per sempre. Alle due Elene, a Kaisa a Päivi e ad altre di cui forse racconterò, sono stato
il più fedele di tutti gli amanti.
Tutto questo e anche altro avrebbe significato il campo sportivo. Sarebbe diventato un luogo epifanico: rivelatore di verità occultate da uomini avvezzi più al male che al bene, e messaggero di segni mandati dal cielo che facevano presagire il futuro.
Eppure nel 1966, chiuso com’ero nel mio straziante egoismo, quel tevmeno", il terreno sacro degli anni successivi, mi lasciò indifferente.
giovanni ghiselli
1 Cfr. Svetonio, Neronis vita, 49.
[2] "Mnhsth;r ga;r h\n moi potamov", jAcelw'/on levgw" (Sofocle, Trachinie, v. 9), il mio pretendente era un fiume, dico l'Acheloo
[3] Cfr. Platone Cratilo 402a: “ di;" ej" to;n aujto;n potamo;n ouk a]n ejmbaivh", non potresti entrare due volte nello stesso fiume. Parla Socrate rivolgendosi a Ermogene e ricordando Eraclito (cfr. frammemto 52 diano).
[4] Cfr. Eraclito fr. 43 Diano
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