Avuta la stanza dunque, andai a posarvi i bagagli poi uscii per mangiare. Una cena poco meritata dopo tutte quelle ore seduto. Mi proposi perciò la frugalità. Ero già in buona parte guarito dalla frenesia alimentare dell’obeso. Nel cardo maximus di Cittadella vidi una scritta: Ristorante il Gobbo. Accipio omen, mi dissi: è di buon auspicio. Ordinai un secondo: bollito misto con zucchine, senza patate né pane, per carità. Sarebbe stato di nuovo l’orrore. Un quarto di vino invece lo volli ordinare. Mentre aspettavo la cena, triste ma non deformante, pensavo: “domani comincerò a insegnare. Sono a una svolta a gomito della mia vita. Avrò uno stipendio di 118 mila lire al mese. Altre 80 mila me le dà generosamente la zia Giulia grata perché andavo tutte le estati a Moena con lei, priva di figli e desiderosa di maternità. Ora vorrebbe che facessi carriera nella scuola. Come studente sono stato bravo, soprattutto nel triennio liceale quando si traducevano gli autori greci e latini: devo tornare al liceo. Quello era l’ambiente più adatto e congeniale a me. Anche qui alle medie del resto non dovrò limitarmi a insegnare la grammatica, l’analisi logica e quella del periodo. Lo farò come propedeutica alla lettura e al commento degli autori, gli Italiani più bravi, più capaci di colpire la sfera emotiva dei ragazzini, quindi più memorabili. Anche i Greci e Latini potrò presentare tradotti da me. Essenziale sarà interessare gli allievi: farmi ascoltare. Non basterà ciarlare a vanvera o genericamente di ogni cosa: bisognerà citare anche a memoria gli autori in modo che i ragazzi sentano la loro bellezza e se ne approprino imparando come funziona bene la lingua nostra e gustino la meraviglia della vita. Dovrò studiare molto ogni giorno. Affronterò con forza la mia vita[1] che voglio dedicare all’educazione dei giovani. Non per niente Josiane mi dedicò la rosa bianca con l’epigrafe Magister tibi[2].
Sarò maestro di questi bambini poi allargherò la scolaresca, magari fino a un popolo intero[3].
Non è tempo di chiacchierare a vuoto, e di vivere a casaccio.
Tutti i pomeriggi di quell’inverno remoto, più le mattine dei dì di festa, studiavo: la geografia e i tecnicismi della lingua italiana per dovere, più che piacere; invece rileggevo con gioia Omero, Sofocle, Euripide, Catullo, Orazio, Dante, Machiavelli, Leopardi. Nei primi tempi però mi concentrai su Foscolo che mi pareva il più capace di entrare nel cuore e nella mente dei ragazzi. Con il carme Dei Sepolcri, solo nella mia stanza del Motel Palace, mi commuovevo fino alle lacrime. Piangevo perché nei versi splendidamente musicali del maestro educato anche lui dai Greci, trovavo il grado eroico dell’esistenza umana che cercavo anche dentro di me, mi commuovevo siccome ci trovavo il culto della bellezza, delle donne, della poesia, dell’amore, le illusioni cui avevo sempre aspirato anche io considerandoli valori veri e scopi più congeniali a me di quelli meschini della gente ordinaria, fangosa tutta intesa al lucro, immersa nel pantano della menzogna, in cerca di una complice dello stesso tipo per mettere al mondo altri individui del loro stampo.
Dovevo insegnare lo stile dell’umanesimo mentre educavo quei ragazzini ancora cerei in virtutem flecti, capaci come la cera di prendere impronte buone. Speravo buone.
Questi erano i propositi per il mio tirocinio che del resto sarebbe continuato per tutta la vita.
Tutti gli insegnanti e tutte le persone per bene, non dovrebbero mai smettere di migliorare imparando: "semper homo bonus tiro est "[4].
giovanni ghiselli
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