martedì 16 febbraio 2021

Debrecen 1966. XIII parte

alla mia sinistra Fulvio, 2011
L’incontro con i tre contubernali diventati e rimasti amici. Fulvio di Parma, Danilo di Bassano del Grappa, Luigi di Roma

 

Entrato nella camera 4 del III piano del collegio numero uno, dunque, scoprìi subito le mie carte bassissime che non volevo coprire con  mano tremante; del resto non sarebbe stato facile tenerle nascoste dietro l’aspetto rovinato dall’infelicità  e con il mio comportamento drammaticamente insicuro. La grande, totale carenza di felicità traspariva da tutti i miei atti “d’allegrezza spenti”[1].

 

Ma Dio che mi aveva guidato fin lì, mi aiutò: i miei contubernales [2] erano persone buone: mi diedero la mano di cui avevo bisogno per cominciare la risalita dall’abisso scosceso e dirupato della sventura. Tra questi c’era Fulvio di Parma che sarebbe diventato il mio amico migliore, poi Danilo, un ragazzo veneto, studioso eppure ebbro di incontenibile gioia, almeno così mi sembrò, e Luigino un dolce ragazzo di Roma, molto sensibile, intelligente, colto e capace di comprendere le difficoltà del prossimo suo, come le proprie. Fulvio mi piacque subito molto. Mi sembrò che osservasse le cose e le persone per meditarci sopra, invece di spiarle per impossessarsene, usarle o sottometterle, come fa la gente volgare.

Aveva due anni e mezzo più di noi altri e un modo di fare, uno stile assai più maturo. Lo scelsi come l’educatore, il padre, il  maestro e l’ amico di  cui avevo un grande, insoddisfatto bisogno.  Le sue parole non erano mai prive di idèe e sentimenti: quell’uomo non era vago di ciance e ostile al pensiero, come tanti omuncoli e diverse donnicciole incontrati sia a Pesaro sia a Bologna. Anche Luigino e Danilo mi piacquero.  Tutti e tre  erano degli studiosi capaci di apprezzare letture e cultura. Da loro capìi di averle colpevolmente trascurate per insensato timore  della mia diversità dalla gente usuale

“ una gente-zotica, vil; cui nomi strani, e spesso-argomento di riso e di trastullo,- son dottrina e saper”[3]. 

Quei ragazzi, se citavo un verso di Virgilio o di Euripide o di Leopardi, non mi sbeffeggiavano, anzi mi approvavano e incoraggiavano a continuare o a ripetere. Quando dissi a Fulvio che non fumanvo,  mi fece dei complimenti ripagandomi degli insulti che ero solito ricevere dagli imbecilli per quella che secondo loro era una colpevole carenza di virilità.

Fulvio mi fece capire che la mia diversità dai più, la sensibilità alle persone, alle parole e ai fatti, la memoria che mi consentiva di citare i poeti in italiano, in greco, in latino e in inglese, erano qualità, non difetti come sostenevano i rustici nimium del natìo borgo selvaggio dal quale ero partito così desolato.

Fui subito bendisposto verso queste persone tanto differenti da quelle che avevo preso la cattiva abitudine di frequentare: queste non mi avrebbero umiliato né deriso, né ferito, siccome non erano di uno stampo del tutto differente dal mio. Fulvio era di destra, gli altri due di sinistra e avremmo fatto anche discussioni accese, ma eravamo tutti e quattro tendenzialmente, anzi sostanzialmente diversi dal borghesuccio che pensa a fare denaro e a combinare affari. A loro tre, come  a me, interessavano l’amore, la bellezza, le idèe,  più delle cose materiali: vestiti, automobili, mobili padelle, o altre minuzie[4]. Avevamo bisogni spirituali innanzitutto e nessuno di noi è diventato un filisteo un  a[mouso" ajnhvr",  un uomo estraneo alle muse”[5], uno di quegli individui “continuamente affaccendati nel modo più serio attorno a una realtà che non è tale (…) Di conseguenza le ostriche e lo champagne[6] sono il punto culminante della sua esistenza”[7].

Spero che questi amici, Fulvio già defunto con mio grande dolore, quindi Luigi e Danilo, ancora al mondo grazie al buon Dio, dove prego che ci conservi tutti e tre ancora a lungo,  non me ne vorranno se ricordando  i nostri  vizi e le nostre virtù non ho cambiato i loro nomi a me cari come le loro persone. Un abbraccio forte a tutti. Vi chiedo di nuovo scusa se più avanti, dopo queste parole di affetto, non vi risparmierò canzonature e motteggi.  Lo facevamo anche allora dopo avere preso confidenza, e volendoci bene. Del resto il motteggiare l’abbiamo preso dai nostri autori greci e io non l’ho mai risparmiato  a me stesso, prima di tutti.


Bologna 16 febbraio 2021 ore 11, 48.

giovanni ghiselli

 

p. s

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[1] Cfr. F. Petrarca, XXXV, sonetto XXVIII.

[2] Compagni di camerata . Cfr. Seneca Ep. 47, quella su gli schiavi.

[3] G. Leopardi, Le ricordanze, 30-33

[4] Plutarco, nella Vita di Solone, racconta che il saggio legislatore ateniese disprezzava la ajpeirokaliva, l'ignoranza del bello e la mikroprevpeia (27, 20), la meschinità di Creso che si era presentato coperto di gioielli e d'oro. Luciano in Come si deve scrivere la storia (scritto tra il 163 e il 165) fa questa osservazione: “Vi sono alcuni che trascurano completamente, o appena sfiorano, fatti grandi (ta; megavla) e invece, per rozzezza (uJpo; de; ijdiwteiva"), mancanza di gusto (ajpeirokaliva"), e ignoranza (kai; ajgnoiva") di quello che va detto o quello che va taciuto, si attardano a descrivere nei minimi dettagli le cose più trascurabili (ta; mikrovtata, 27)”. L’ajpeirokaliva è lo stesso difetto che il filosofo Nigrino di Luciano attribuisce ai ricchi Romani, i quali si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro cattivo gusto: pw'" ga;r ouj geloi'oi me;n oiJ ploutou'nte" aujtoi; ta;" porfurivda" profaivnonte" kai; tou;" daktuvlou" proteivnonte" kai; pollh;n kathgorou'nte" ajpeirokalivan; “Come fanno a non essere ridicoli i ricchi con le loro stesse persone dal momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita delle mani, denunciano il loro cattivo gusto?” (Nigrino, 21).

[5] A. Schopenhauer Parerga e Paralipomena , Tomo I, p. 462. 

[6] Peggio ancora quel vero e proprio “anticibo” che qui a Bologna amano e chiamano “lasagne”. Nelle Marche “vincisgrassi” che sono meno mangiati e pure meno schifosi e nocivi Quando me lo portano a casa, dico che non ho fame e rimasto solo, lo butto nella spazzatura. Ndr.

[7] Schopehauer Op. cit., p. 463

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