Gianalfredo Soffientini, Donna in piscina |
La piscina di Debrecen allora era bella, grande, ricca di alberi, prati, cespugli, fiori, chioschi e, naturalmente, di vasche. Queste avevano l’acqua fredda, o tiepida, o calda fino a scottare. Erano rettangolari, o circolari; grandi, piccole e medie; alcune avevano un trampolino per i tuffi, altre le onde artificiali per il gioco dei bambini, in altre ancora si poteva soltanto nuotare.
Insomma era un bel luogo, attrezzato bene, pulito, confortevole e frequentato da persone rispettose le une delle altre.
Quando ci sono tornato 45 anni più tardi, in bicicletta, illudendomi di ritrovarlo qual era, vidi invece con dispiacere che, quel giardino d’estate aperto al popolo di Debrecen, era diventato parte di un albergo, ed era stato completamente modificata in peggio: privo di vegetazione, di giochi per bambini, di varietà di vasche: da luogo di incontro e svago popolare quasi gratuito, era stato ridotto a ritrovo squallido e piuttosto costoso di borghesucci pretenziosi, trasformato in merce e affare volgare. Brutto assai dunque anche se non tanto quanto l’Hungaria ridotto a MacDonald.
Dopo avere girato in lungo e in largo osservando la gente, soprattutto le donne giovani e belle, nel centro di una vasca circolare dall’acqua caldissima, sopra un’isoletta di pietra, vidi raggruppati Fulvio, Danilo, Ulderico, il Romano nuovo arrivato, più un paio di sconosciuti, tutti intorno a una ragazza sola, bellina quanto si vuole, ma che non li degnava di uno sguardo. “Bella e sdegnosa!” pensai ricordando con ironia un luogo comune dell’epoca quando i maschi corteggiavano accanitamente le femmine e queste mostravano, o simulavano, riluttanza come le femmine di molti altri animali.
Dopo esserci ambientati a Debrecen, avremmo chiamato la vasca in questione “piscina dei sifilitici”, poiché la sua acqua termale, quasi bollente, faceva bene a diversi malanni, e molti dei coricati là dentro erano un po’ malandati, smozzicati [1] perfino. Vincendo dunque la ripugnanza dell’acqua caldissima e zigzagando tra i mutilati distesi in quella bolgia rovente, resistendo anche al dolore iniziale dei piedi e dei polpacci lessati [2], mi avvicinai ai miei contubernali e salii sull’isoletta del corteggiamento inopportuno.
Volevo osservare da vicino la scena che da lontano mi era sembrata folle.
Danilo, inebriato e rubicondo, gridava: “Bea tosetta, cara da Dio, perché non rispondi, Dio caro? Rispondi, ugheresina bella!”
Quella non solo non rispondeva ma non gli rivolgeva nemmeno una rapida occhiata. Fulvio provava a interessarla con cenni del capo e ammiccamenti vari; Ulderico, le agitava davanti al volto le mani con alcune dita dritte, forse per suggerirle un appuntamento appartato a una certa ora.
Gli sconosciuti della seconda fila parlavano tra loro e ridevano: dovevano essere ragazzi autoctoni divertiti dalla comicità della scena. I mezzi impiegati dai miei connazionali non erano adeguati al fine.
Io, ragazzo disgraziato assai, non avevo esperienza di corteggiamento, ma desideravo talmente tanto le femmine umane, da capirle ancora prima di conoscerle, e da comprendere che quel modo di procedere non aveva alcuna possibilità di successo. Allora, incoraggiato da tanta follia, osai intromettermi con forza, e atteggiandomi a intenditore, dissi: “Salve, ragazzi, è un piacere grande incontrarvi, però, se permettete, state facendo un grosso errore: non si corteggia una sola donna in tre alla volta e in tale maniera goliardica, per non dire infantile o addirittura ferina”.
Danilo mi guardò bieco, e disse: “Cossa vu to? Stai poco bene? Se vuoi, vieni avanti a darci una mano, se no, tirati indietro, o tirati su con una graspa. Cosa c’è che non va? Non vedi che bea che xe? Non sarai mica finocio anca ti? Non vedi che bea, cara da Dio? Non è il tuo tipo?”
“Sì - risposi - è bellina assai, è cara da Dio, piace molto anche a me, è quasi il mio tipo, però io sto dicendo un’altra cosa”.
“Cossa vu to dire” gridò il veneto, sempre più rosseggiante e sfavillante tra i vapori dell’acqua rovente e i fumi interni dell’alcol.
Temevo una sua invettiva; invece la voce emessa dalla faccia trascolorata [3], si contrasse in un singhiozzo, poi tacque. Quindi con miglior labbia [4], il giovane infatuato prese una grossa borsa messa al riparo sul vertice dell’isoletta lapidea, l’aprì, tirò fuori una bottiglia di palinka, ne bevve un paio sorsi, poi me l’allungò, dicendo quietamente: “ Manco male che non sei finocchio. Mi saria dispiaso! Non fare storie, bevici sopra anca ti, pesarese caro da Dio!”.
Pensai che la piscina calda nel pomeriggio offuscato eruttasse una oscurità capace di ottenebrare le menti dei miei compagni di stanza, ma non lo dissi. Anzi, assaggiai la palinka all’albicocca offerta da quel ragazzo di Bassano del Grappa che dopo tutto trovavo simpatico: il liquore ungherese mi sembrò più caldo dell’acqua rovente che mi aveva scottato le gambe. Più avanti purtroppo tale brace liquida arrivò a non dispiacermi. Però per fortuna, mi emancipai presto da quella strana consolazione. Grazie alle donne mie benedette.
Bologna 20 febbraio 2021 ore 18, 50.
giovanni ghiselli
p. s.
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pps. Il mio appello per il inascimento del Liceo classico ha già avuto, in poche decine di minuti 26 approvazioni, 23 commenti e 3 condivisioni. Vi ringrazio. gianni
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1Cfr. Dante, Inferno, XXIX, 6.
2 Cfr. Dante, Inferno, XXI, 135.
3 Cfr. Dante, Paradiso, XXVII, 21.
4 Cfr. Dante, Inferno, XIV, 67.
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