lunedì 15 febbraio 2021

Debrecen 1966. XI parte. L’ospedale di Debrecen. Il segno purgatoriale

Purgatorio (Wellcome Collection)
Al di là del tempio cristiano la strada entra nell’ombra di grandi alberi che via via si infittiscono fino a formare la foresta nel cui centro c’è il collegio dove avrei passato il mese seguente cercando di restaurare la  mia vita in rovina.

Sarei andato spesso a camminare nel bosco fitto di alberi antichi, il frequens lucus, che circonda il complesso universitario.

 Il  secretum loci, la solitudine del luogo arcano, mi avrebbe aiutato a riflettere sugli errori fatti terminato il liceo, a correggerli, a risollevarmi.

Ero venuto in odio a quasi tutti per il narcisismo mio deleterio.  

Alla fine del corso, una scuola di raddrizzamento della vita, sarei arrivato a pensare: “Ora devo amare me stesso non più e non meno di quanto amo gli altri della specie che è la mia: didici   esse infelix” - ho imparato a essere infelice, ho già sofferto tutto, e adesso voglio e devo apprendere quid sit felicitas. Dal dolore ho capito e appreso tanto da poter diventare un maestro rivelatore del male da evitare per giungere al bene. Il primo male che devo indicare chiaramente, dei`xai safw`" , e con dito diritto, è la deviazione da se stesso, lo smarrimento della propria identità per mancanza del coraggio di essere strano, diverso dai più”. Nel mese dell’Università estiva avevo incontrato ragazze e ragazzi della mia razza spirituale. Mi avevano consentito di essere me stesso, e incoraggiato a diventarlo del tutto.

 Dopo circa tre chilometri, la mia scassata Seicento  sbucò in una radura  assolata dove vidi un grande edificio di stle neoclassico con la scritta sesquipedale e incomprensibile Orvostudomáyegyetem.

Sorgeva in una piazza vasta dove il tram numero 1 era in sosta: non sapevo se voluta, o dovuta a una qualche paralisi.

 Pensai di essere arrivato all’Università estiva della mia borsa di studio. Parcheggiai l’automobile, attraversai un portone monumentale, entrai nell’atrio e proseguìi verso il giardino dove si affacciano porte e finestre. Cercavo una segreteria plausibile dove presentarmi e ricevere  l’alloggio  che mi spettava. Ma tra i fiori e le erbe camminavano a stento, o sedevano sulle panchine, diverse persone per lo più anziane e malandate. In pigiama per giunta. Altri, meno vecchi e malmessi, vestiti con camici bianchi, giravano affaccendati. Capìi che ero finito nell’ospedale di Debrecen, forse il nosocomio di tutta la puszta . Ero ancora assai dubitoso.

 Mi domandai: “Buon segno o presagio sinistramente ominoso, annunciatore dello sfacelo definitivo?”

Poi: “Debrecen dove mi sono ospedalizzato senza volerlo, sarà il luogo della mia guarigione, oppure la mia decadenza è irredimibile, la caduta precipitosa, a testa in giù, è irreversibile, e la puszta è la meta dell’ultimo viaggio? Ho percorso 1200 chilometri così laboriosi per arrivare a una tomba sperduta?

Et mihi  tantum de funere iter?[1]    

Chiuso in una nicchia anonima di un colombario gelido e remoto  chi mai  mi dirà:”Vale, passando, e ti sia lieve il suol?”.

Aggiunsi altre domande del genere con un pizzico di ironia per non scivolare nell’eccesso vociferante della posa tragica che rischia di assumere maschere così deformate da apparire ridicola.

 

Ricordando tali quesiti, ora sorrido di quella infelicità attenuata da un barlume di intelligenza e dalla volontà di capire. Il tempo, invecchiando con me,  mi avrebbe dato  la visione  del  panorama vasto e vario formato dagli anni passati. Ora comprendo che i presagi sono sempre buoni per le persone buone e intelligenti, basta capirne il significato notarne i nessi. Adesso capisco  che è possibile districare la rete dell’acciecamento e uscirne. Nulla avviene per caso.  I fatti interferiscono insieme.  C’è una series causarum,  una concatenazione di cause, eiJrmo;" aijtiw'n.  Tutto è causato e accade necessariamente, nulla è casuale. Quello che appare eventum , elemento accidentale, è di fatto coniunctum, è una conseguenza ed è una nuova causa di un’altra conseguenza, e così via. Lo capisce l’intelligenza, la  suvnesi" che è la capacità della mente di avvicinare cose anche lontane nello spazio e nel tempo. Tutta la natura è congeniale a sé, imparentata con se stessa  come mi ha suggerito Platone[2].  

I libri mi hanno aiutato. Anche le donne, fin da bambino: in casa le zie, la mamma e la nonna disprezzavano e maltrattavano  i maschi adulti , ma tenevano in pregio me perché ero bravo a scuola. Poi altre donne via via: grazie al mio carattere formato anche sui libri buoni letti e imparati. Via via  ho appreso a parlare, ascoltare, comprendere.

 

Quella mattina antica e piena di significati, ricordai la preghiera di Ecuba nelle Troiane di Euripide portate all’esame di maturità tre anni prima, la contaminai con un’espressione dell’Agamennone di Eschilo, alzai gli occhi al cielo  e mormorai:” Dio , chiunque tu sia[3], difficile da conoscere, sia necessità di natura, sia intelligenza dei mortali [4], aiutami”.  

Un uccello dalle ampie ali attirò la mia vista: pensai che fosse una risposta, un o{rni" profetico, e chissà,  forse pure ai[sio"[5].

 

Cinque anni più tardi, nel 1971, in quell’ospedale accompagnai Elena che aveva bisogno del mio aiuto e me ne fu grata assai, favorendo il mio definitivo riscatto dall’infelicità. Ero tornato in quel nosocomio, ed ero entrato nel reparto delle donne pregnanti e malate, non più per sbaglio ma per aiutare una donna che a sua volta mi avrebbe aiutato. Le rimasi vicino, facendole animo, finchè ne ebbe bisogno. L’immagine di lei è imasta sempre dentro di me.  

 

Ora comprendo che essere uscito subito dal nosocomio dopo esserci entrato per sbaglio quella prima volta nel luglio del ’66 , non fu un fatto casuale ma il segno  che non volevo più rimanere adagiato sulle malattie del mio spirito riempiendo la vita mia e quella prossimo mio con querimonie noiose, distruttive e plebèe. Ho voluto fartene parte lettore, per indurti a bandire la tue. 

Ma torniamo a quell’estate remota. A uno dei biancovestiti domandai dell’Università, in inglese. L’ospedaliero con il dosso della mano destra mi fece segno di uscire e di girare a destra.

“Segno purgatoriale” [6] pensai. Ero sulla strada buona: quella di intendere i segni.


Bologna 15 febbraio 2021 ore 17, 47.

 giovanni ghiselli

 

p. s

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[1] Cfr. Lucano, Pharsalia V, 811

[2] Th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh",  Menone, 81d.

[3] Cfr. Eschilo, Agamennone 160. E’ il canto del pavqei mavqo~ (v. 177)

[4] Cfr. Euripide, Troiane, 886-887

[5] Favorevole . cfr. Sofocle, Edipo re, v. 52

[6] Cfr. Dante, Purgatorio, III, 100- 102: “Così il maestro; e quella gente degna/ ‘tornate’ disse; ‘intrate innanzi dunque’/coi dossi della ma faccendo insegna”

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