martedì 23 febbraio 2021

Le estati tra 1967 e il 1971. Capitolo IV Debrecen 1968. Eeva Vuortama

A Debrecen nel luglio del ’68 ritrovai tutti gli amici, con gioia, quella mia gioia che rimane comunque una cosa seria siccome nata dal superamento di tanto dolore. C’erano, ancora contubernali,  due dei tre amici del 66, e ne conobbi alcuni nuovi di zecca: Alfredo, Silvano,  Claudio, Ezio, Giovanni, e altri meno importanti.

 Una settimana dopo essere arrivato con una mini minor verde, in compagnia di Fulvio raccolto alla stazione di Ravenna, mi innamorai di una ragazza di Helsinki, la prima del ciclo finnico, non ancora un’amante però. Non facemmo il massimo. Non me lo concesse.

 Con rimpianto. Mio di sicuro.

una delle ragazze conosciute a Debrecen
Questa si chiamava Eeva Vuortama, aveva ventun anni, era bionda come il grano poco prima di venire falciato nei giorni più belli dell’anno quando il sole ci dona benigno la sua luce suprema. Eva aveva gli occhi celesti,  un viso bello assai, intelligente espressivo, ma di corpo non era del tutto irreprensibile. Non contraccambiava il mio amore, non veniva a letto con me nella solita camera numero 4 del primo collegio dove dormivo con Fulvio, Danilo e Claudio, tuttavia con me usciva la sera. Diceva che mi trovava simpatico, gentile, gradevole. Sono apprezzamenti non sufficienti per fare l’amore e non soddisfacenti, insufficienti per compensare chi vorrebbe farlo. Mi dispiaceva assai quel suo sostanziale diniego della mia persona intera, ciò nondimeno la frequentavo assiduamente siccome sentivo di non perdere tempo in quanto da lei imparavo, come Odisseo dalle Sirene, pur costretto anche  lui  a non chinarsi su quelle bocche dalle voci soavi, su quelle lingue fatate. Mentre la osservavo e ascoltavo, vedevo nuove idèe necessarie alla mia crescita. Mi sentivo sollevato sulla pianura della Verità quando potevo starle vicino. Le idèe che questa finnica impersonava e interpretava erano quelle del buon gusto e dell’arte. Mi educava con l’eleganza del suo stile.

Migliorai in tutto durante quel mese grazie a lei. Feci progressi perfino nel mio inglese studiato a scuola solo fino alla quinta ginnasio, come usava in quel tempo. Noi Italiani eravamo, con i Francesi, i meno capaci di parlare altra lingua che quella materna nell’università ungherese frequentata da studenti di quasi tutto il continente eurasiatico. Da Eva imparai a capire e a parlare la lingua di Shakepeare, che al ginnasio sapevo solo tradurre.

Apprendevo  perché  ascoltavo Eva con enorme attenzione in quanto consideravo evangelica ogni parola sua e, se me ne sfuggiva anche una sola, me la facevo ripetere tutte le volte necessarie.

Noi umani siamo inclini ad amare chi ci rende migliori. Eva mi insegnò a correggere tanti difetti della mia educazione e del carattere: quell’estate avevo conquistato da poco un aspetto piacente e ne andavo fiero dandogli troppa importanza, come un pezzente arricchito sopravvaluta il denaro.

Mi sentivo attraente: già quasi snello,  vestito bene, fornito dell’ automobile allora di moda e credevo, sbagliando, che questo bastasse ad affascinare e conquistare qualsiasi donna. In quel mese compresi che ciò non era sufficiente con una donna della levatura di Eva. Capìi che mi mancavano competenze speciali, capacità egregie, uno stile non ordinario. Eva manifestava il suo stile da artista quando cantava o danzava meravigliosamente, e rivelava la sua intelligenza educata quando parlava facendomi vedere le idèe del bello e del buono.

 Le sue parole e i suoi movimenti erano di luminosa chiarezza: sicuri, espressivi, pieni di significato. Volevo diventare come lei e la presi quale modello. Come avevo fatto con i miei consaguinèi per gli aspetti che mi piacevano e mi si addicevano, come farò con le tre finniche degli anni seguenti .

Quando ballava e mi sorrideva, Eva bionda di capelli e bianca di pelle com’era, sembrava la luna circondata dalle stelle scoperte dai soffi del vento che spostva i rami frondosi della grande foresta e allontanava le grandi nuvole acquose, e mentre le nuvole e le foglie scosse dai soffi celesti lasciavano scorgere il cielo, vedevo la luna e le stelle danzare in sintonia con i disegni ballati da Eva vestita di colore bianchissimo e adorna di lunghi capelli che balzavano armonizzati con i suoi passi ed erano simili ai fiori del croco splendidi al pari dell’oro.

Quando il denso fogliame scuro o le nuvole inquiete nascondevano i tripudi degli astri, oppure la finlandese aurichiomata spariva dalla mia vista, tornava il buio nel mondo, si spengeva ogni luce per me.

Mentre la osservavo, per la prima volta  capìi che a questa mia vita mortale potevano dare motivi di gioia non il denaro, la carriera, il successo caro al volgo, ma l’amore e l’arte. Sentivo di essere potenzialmente della razza di Eva: quella dei vivi davvero: la stirpe degli artisti fiammeggianti di un fuoco che traspare dalle espressioni del volto e del corpo: il gevno" degli eterni ricercatori della bellezza. Di questa famiglia eletta faceva parte quella ragazza: in lei anche il movimento di un dito era un’espressione di bellezza. Avevo bisogno di tempo, di studio, di dolore, di gioia, di amore, poi sarei diventato artista anche io. Lo volevo con tutte le forze per essere degno di Eva o almeno di una donna altrettanto dotata dello stile dell’immortalità che a me ancora mancava.

Una per cui non sarebbe stata nemesi[1] patire a lungo il dolore di una nuova nascita.

 



[1] Cfr. Omero Iliade, III, 156

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