giovedì 11 febbraio 2021

Debrecen 1966. IV. Le sorelle fatidiche

copertina di un vinile del 1981
Finalmente potei scorgere un cartello con la scritta Zimmer frei attaccato alla porta di una casa a tre piani.

 Mi fermai, scesi dalla Seicento, suonai. Una finestra del secondo piano si schiuse: ne sbucò una testa bianca che richiuse subito i vetri senza dire parola. Aspettai un poco con la voglia di cercare più avanti, ma l’anziana venne ad aprire .

Zimmer frei?” chiesi. Quella disse solo: “Passport” e tese la mano. Glielo diedi. La vecchia lo prese e guardò la fotografia confrontandola, sospettosa, con la mia faccia. Poi disse “Einen moment, bitte!”. Quindi si mosse verso una piccola porta situata a metà del corridoio quasi buio che dall’ingresso menava a una scala. Aprì quell’uscio, disse qualcosa a qualcuno, e tornò. Camminava piuttosto in fretta per la sua età. Subito dopo, dall’andito scuro arrivò un’altra donna anziana, somigliante alla prima, meno arcigna nel volto però. Al punto che mi sorrise. Me ne rincuorai. Parlarono un poco tra loro, mentre mi esaminavano guardandomi di sbieco. Infine si resero conto che non avevo intenzioni cattive. “ Forse hanno capito che non sono un epigono di Raskol’nikov”[1], pensai.

In effetti non ho mai premeditato di ammazzare due vecchie. Nemmeno una a onore del vero.


La meno aspra mi diede due chiavi: una della porta esterna che mi fece aprire e chiudere diverse volte per la paura tipica dei vecchi di non avere la casa serrata bene, l’altra della mia stanza, che mi indicò con un dito, al piano di sopra.

La più diffidente e dura, non condividendo, forse, l’atto, ritenuto affrettato della sorella, si mise ad agitare entrambe le mani: con la sinistra, più arretrata, accennava a restituirmi il passaporto, ma con la destra, tesa quasi fino al mio volto, manifestava il desiderio  di essere pagata in anticipo, e senza indugio, sfregando rapidamente, rapacemente, l’indice con il pollice e dicendo: “Schilling, schilling, sofort!”, più volte. Poi scrisse un numero.  Un prezzo non esoso, invero, e colazione compresa. Pagai, riebbi il passaporto, e salii nella camera. Era spaziosa, poco illuminata e fredda. Mentre sistemavo la roba, pensai cosa potessero significare quelle due donne che mi avevano dato ospitalità nella notte, ma con diffidenza. “Sono allegoriche queste due ”, pensai, “forse addirittura fatidiche sorelle, ministre  del fato come the weird sisters del Macbeth[2], sue intermediarie!”

Gli auctores, i miei accrescitori mi aiutavano sempre: mi fornivano i verba per i pensieri che talora erano immersi così  profondamente nel mio cervello da non trovare la forza né le parole per scavare la via di uscita nella chiarezza cosciente, non ebbra, non oscurata dai luoghi comuni.

 

Le anziane  di Graz dunque potevano significare la parte meno buona delle mie zie, le sorelle assai più attempate di mia madre, la Rina e la Giulia.

 Io dovevo fruire della loro ospitalità a Pesaro d’estate, e a Bologna nella casa che mi avrebbero regalato dopo la laurea, se l’avessi presa a pieni voti, e dovevo ripagarle, ossia ricompensarle facendo un poco di carriera nella scuola: se fossi diventato professore di greco e latino nel miglior liceo di Bologna, loro due, ex maestre elementari, all’estero, tra l’altro a Budapest quando c’era il fascismo, ne avrebbero avuto sufficiente soddisfazione. “E’ un lavoro dignitoso” diceva la zia Rina, la più esigente. Se avessi insegnato all’Università, sarebbero state oltremodo felici.

 Dovevo rispettarle ed essere grato per l’aiuto che già allora ricevevo, però non dovevo permettere alle due anziane sorelle di mia madre, più o meno ancora fasciste e  pretificate, di interferire nella scelta delle mie donne, del mio destino. Volevano che mi sposassi con “una brava collega”. Ossia auspicavano  una ragazza di famiglia borghese, vergine, che insegnasse, mi preparasse piatti forti e schietti, e tenesse ordinata la casa.

Io invece non volevo una moglie tratta dalla sesquiplebe[3], una casalinga addomesticabile, bensì un’amante bella, intelligente, sensibile, libera, colta, sportiva. Un’artista dotata di vis vitalis, una della mia levatura, quella che avevo perduto e volevo ritrovare.

Diverse amanti dovevo incontrare anziché una sola, magari una alla volta, però una più speciale dell’altra. I luoghi comuni, la gente ordinaria, la turba dei chiacchieroni e dei fanfaroni, mi davano noia. Quelli che giocano a carte fumando e cianciando: pettegolezzi, battute da frustrati sessuali, luoghi comuni.

 Quando avevo cercato di assimilarmi a coloro, mi ero degradato fino a sentire strigi che stridevano irridendo la strage della mia identità.

Se invece di essermi disperato avessi continuato a cercare di adeguarmi a tale genìa dal carattere opposto e ostile al mio, sarei morto disprezzato e deriso anche da coloro.

Dovevo voltare la schiena a quella specie indefinita.

La vita dell’eterno marito di una qualunque non faceva per me.

Le zie d’altra parte mi  aiutavano e ancora più mi avrebbero aiutato in seguito. Mia madre le chiamava le “sorelle Materassi”.

Tutte e tre e pure la loro madre, la carissima nonna Magherita molto simile a me,  capivano che Pegaso se viene messo a girare la ruota del mulino, si ammala e muore. Con il loro aiuto e quello della madre mia dovevo ritrovare le ali che mi ero lasciato portare via da gente stupida, cattiva, priva di storia e di gevno".

Mi mancava la compagnia di persone del mio stampo che sente, respira, vive le bellezza e l’arte. Dovevo trovarla.

 

Bologna 11 febbraio, 2021 ore 19, 36.

giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Il protagonista di Delitto e castigo di Dostoevskiy. Ammazza due vecchie appunto.

[2] Shakespeare, Macbeth, I, 3.

[3] Cfr. Vittorio Alfieri, satira IV, La sesquiplebe    

D'ogni Città voi la più prava parte,

       Rei disertor delle paterne glebe,

        Vi appello io dunque in mie veraci carte,

           Non Medio-ceto, no, ma Sesqui-plebe.  (vv. 31-34)

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