“Fai presto tesoro, ripeté, ti prego, ti prego, ti prego!
Anzi, ascolta: ti vengo incontro, se vuoi; domani appena avrò ricevuto la tua telefonata che aspetterò con ansia, dalle cinque ante meridiem, non post, correrò a perdifiato fino alla stazione, prenderò il primo treno diretto a nordest e ti verrò incontro a Venezia. Vuoi amore? Poi magari facciamo un giro in gondola. E mentre il gondoliere ci volte le spalle facciamo l’amore. Almeno tre volte: la nostra sufficienza. Vuoi amore?”
Il mio fastidio aumentò: non tanto per la sciocchezza del giro in gondola, una proposta del tutto inappropriata in quel contesto, una stupidaggine plebea, quanto per la petulanza e la falsità delle parole melense troppe volte iterate. Tanto usuali, usate e abusate da diventare triviali.
”Se avesse avuto tanta premura quando ne avevo bisogno e gliela chiedevo supplicandola, ora non reciterebbe questa farsa da mima da avanspettacolo”, pensai.
Invece risposi dissimulando, ossia senza rinfacciarle la simulazione: “ Ascolta, ifigenia: domani pomeriggio, immagino verso le sei, ti telefonerò da Trieste e tu vienimi pure incontro, mi fa piacere, però vediamoci alla stazione di Padova dovo so bene come arrivare, mentre avrei dei problemi a trovare piazzale Roma o a parcheggiare nei dintorni di Venezia, non saprei dove. Quanto al giro in gondola, lo faremo un’altra volta, quando sarò più riposato”.
Poi soggiunsi : “Comunque ho voglia di vederti anche io. Devo avere delle spiegazioni da te!”
Ifigenia fece finta di niente ripetendo parole che non rispondevano punto alle mie: “Ti amo tanto!” .
Ripresi la Bártok Béla in discesa: “la via in su e quella in giù sono la medesima”, pensai ripetendo Eraclito. Cercavo conforto.
La pena della fine di quell’amore, della perdita di Ifigenia risuonava e mandava l’eco dei dolori sofferti da bambino nei mesi di agosto dei primi anni Cinquanta quando a Moena ogni giorno aspettavo invano che arrivasse la mamma o almeno una sua cartolina con saluti e baci. La sorgente di quell’angoscia sul Danubio si trovava già sulle sponde dell’Avisio nella valle di Fassa situata tra i monti Pallidi e quelli del Catinaccio, il giardino di rose, dai quali cercavo di trarre conforto interrogandoli siccome vedevo in loro forme divine e umane che per umanità mi rispondevano sempre incoraggiandomi a proseguire sulla strada della mia vita che dipendeva da nessun altro che dal buon Dio e da me. Giunto sul Danubio, ne osservavo il fluire e ogni tanto alzavo gli occhi sul Gellert. Il fiume e il colle mi ripeterono le medesime parole di conforto sentite da bambino: poche, semplici e vere.
giovanni ghiselli, giannetto
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