Eliot |
Nell’Otello (1604-1605) la gelosia omicida stravolge l’aspetto del Moro: Some bloody passion shakes your very frame” (V, 2), una passione sanguinaria scuote la vostra stessa forma, gli dice Desdemona in procinto di essere assassinata.
Ma Otello non rinnega la propria eccezionalità.
il Moro subito dopo avere ucciso Desdemona invoca il mutamento e Caos: "Methinks it should be now a huge eclĭpse - (e[kleiyiς - ejkleivpw eclipsis) - of sun and moon, and the affrighted globe-should yawn - (allied to hiare to gape - see hiatus) at alteration" (V, 2, 99-101), io penso che ora dovrebbe esserci un'enorme eclissi del sole e della luna e che Il globo atterrito dovrebbe spalancarsi mutando aspetto.
Poi arriva a rivendicare la propria onorabilità di assassino.
A Lodovico che gli domanda: "what shall be said to thee?", risponde : "Why, any thing - An honourable murderer, if you will; - for nought did I hate, but all in honour (293-294)
“In questa rapina rerum omnium ( Seneca, Ad Marciam, 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l'instabilità della condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima” afferma Traina[1].
Infatti Medea in tutta la tragedia rivendica il suum esse del De brevitate vitae[2] . Avendo davanti agli occhi questa visione d'insieme bisogna moderare il dolore: dovete farlo soprattutto voi donne “quae immoderate fertis” (Ad Marciam, 10, 7) che lo portate in maniera smodata.
Si può attribuire a Oedipus quanto T. S. Eliot dice di Otello:"Quel che Otello mi sembra faccia nel tenere questo discorso è darsi animo. Egli tenta di sfuggire alla realtà, ha cessato di pensare a Dsdemona, e sta pensando a se stesso. L'umiltà è, di tutte le virtù, la più difficile a conseguire: nulla è più duro a morire del desiderio di pensar bene di se stessi. Otello riesce a mutarsi in personaggio patetico, adottando un'attitudine estetica piuttosto che morale, drammatizzandosi di contro all'ambiente. Egli seduce lo spettatore, ma il motivo umano è primariamente sedurre se stesso" [3].
Otello vuole essere ricordato come uno che servì lo Stato, uno che amò saviamente ma non troppo bene, uno non geloso ma divenuto dissennato per istigazione, uno che come l'indiano ignorante buttò via la perla più preziosa della tribù, uno che una volta ad Aleppo punì un cane circonciso il quale batteva un veneziano e calunniava la repubblica. (V, 2, 337-355).
La difesa dell'identità.
La tragedia di Seneca gronda pessimismo nei confronti della storia e della società. Tale visione comporta il rifugiarsi e il chiudersi nel proprio spazio intimo.
Anche l’ Antonio di Shakesperare si tiene aggrappato alla sua identità.
Eliot trova delle analogie tra i personaggi di Seneca e quelli di Shakespeare precisamente in questo loro arroccarsi nella proprio individualità: "Nell'Inghilterra elisabettiana si hanno condizioni in apparenza affatto diverse da quelle di Roma imperiale. Ma era un'epoca di dissoluzione e di caos; e in tale epoca, qualsiasi attitudine emotiva che sembri dare all'uomo alcunché di stabile, anche se è soltanto l'attitudine di "io sono solo me stesso", è avidamente assunta. Ho appena bisogno di segnalare... quanto prontamente, in un'epoca come l'elisabettiana, l'attitudine senechiana dell'orgoglio, l'attitudine montaigniana dello scetticismo, e l'attitudine machiavellica del cinismo giunsero a una specie di fusione nell'individualismo elisabettiano. Questo individualismo, questo vizio d'orgoglio, fu, necessariamente, sfruttato molto a causa delle sue possibilità drammatiche... Antonio dice "Sono ancora Antonio [4]" e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di Amalfi "[5]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest ?"[6].
Quando la nutrice le fa notare: "Abiere Colchi, coniugis nulla est fides;/nihlque superest opibus e tantis tibi" (Seneca, Medea, vv. 164-165), quelli della Colchide sono lontani, la lealtà del marito non esiste, di tanta potenza non ti rimane niente, la donna abbandonata ribatte: "Medea superest; hic mare et terras vides,/ferrumque et ignes et deos et fulmina " (vv. 166-167), Medea rimane: qui vedi il mare e le terre, e il ferro e i fuochi e gli Dei e i fulmini.
Questa battuta di Medea ha un’eco anche in Il rosso e il nero di Stendhal: la giovinetta Mathilde de La Mole, innamorata di Julien Sorel è combattuta da dubbi atroci, come la Medea delle Argonautiche, e pensa: “ Quali non saranno le sue pretese, se un giorno avrà il diritto di esercitare intero il suo potere su di me? Ebbene, dirò come Medea: in mezzo a tanti pericoli, mi resto Io!
Subito dopo c’è anche il “darsi animo” di Medea: “In quegli ultimi momenti di dubbio atroce scesero in campo dei sentimenti di orgoglio femminile. “Tutto deve essere straordinario nel destino di una ragazza come me” esclamò Matilde, snervata dal suo ragionare. L’orgoglio, che le avevano instillato fin dalla nascita, si mise in lotta contro la virtù”[7].
giovanni ghiselli, primo febbraio.
p. s. Quando ver veniet nostrum?
[1]Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca , p. 13.
[2] Composto tra il 49 e il 52 : “Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est”, 2, 4, quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso.
[3] T. S. Eliot, Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot. Opere, p. 798.
[4] "I am Antony yet ", Antonio e Cleopatra (del 1606-1607) , III, 13, 93.
[5]Da La duchessa di Amalfi (del 1614) , di J. Webster (1580-1625).
[6]Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot Opere , p. 800.
[1]Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca , p. 13.
[2] Composto tra il 49 e il 52 : “Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est”, 2, 4, quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso.
[3] T. S. Eliot, Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot. Opere, p. 798.
[4] "I am Antony yet ", Antonio e Cleopatra (del 1606-1607) , III, 13, 93.
[5]Da La duchessa di Amalfi (del 1614) , di J. Webster (1580-1625).
[6]Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot Opere , p. 800.
[7] Stendhal, Il
rosso e il nero (del 1830) in Stendhal Romanzi e racconti, vol. I, , trad. it.
Sansoni, Firenze, 1956, p. 594
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