domenica 2 febbraio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. IX capitolo, terza parte



Ludwig II


Il cozzo mentale a Moena. La cena da Lamma, a Bologna. Mario Bemporad. Ifigenia e Luciana.

Alle dieci di sera eravamo al Brennero. Il cielo era tutto stellato: pensammo che il giorno dopo avremmo potuto abbronzarci sulle nevi del Lusia; perciò ci dirigemmo a Moena. Arrivammo verso la mezzanotte. Prendemmo la stanza dove avevamo litigato e fatto l'amore in giugno. Anche questa volta ci fu uno scontro duro, sebbene non dichiarato. Un cozzo mentale. Ci spogliammo ed entrammo nel letto. Dopo un poco dissi: "Sei sempre bellissima. Mi piaci ancora parecchio".
Speravo che rispondesse per lo meno: "Anche tu non sei male". Osservandomi nei folti specchi di Linderhof non mi ero convinto del tutto di non essere ingrassato e ingoffito. Ifigenia non replicò. Allora ripetei le medesime parole con voce più alta. E lei: "Buonanotte. Adesso voglio dormire. Ho tanto sonno, tesoro".
"Maledetta – pensai - Dormi e vai in malora. Presto ne troverò una non peggiore[1] di te .

Alcuni mesi più tardi Ifigenia disse che aveva odiato e sofferto anche lei durante quello scontro assurdo, causato dalla miseria mentale e morale di entrambi. La ragazza aveva creduto che avessi
voluto significarle: "tu mi piaci ancora, nonostante la tua età non sia più tanto tenera e verde".
La mattina seguente il sole c'era, ma l'aria non ne veniva scaldata a sufficienza perché Ifigenia male attrezzata potesse salire sui monti dove comunque l'abbronzatura è incrementata dall'altitudine. Restammo nel fondovalle con mio disappunto e malumore: mi dava fastidio fare una rinunciare qualsiasi per quella megera. Mi appariva una figura buoi, oscurata dalla stupidità. Forse non solo sua. Alle tre del pomeriggio partimmo. Arrivammo a Bologna all'ora di cena e andammo a mangiare da Lamma. Quando ci fummo seduti entrò Mario Bemporad, una strana, nota figura di professore anziano e malato, soprattutto di mente. Un uomo sofferente in quanto convinto di avere sciupato le proprie capacità di scrivere. Io al genio inespresso non credo, altrimenti dovrei dolermi di essere un Coppi o uno Zatopek mancato. Sono sicuro che un grande talento, se c'è, trova il modo di manifestarsi. Bemporad era comunque e persona sensibile, intelligente a suo modo, e colta, sebbene una malattia, dice lui, lo avesse inceppato a vent'anni, impedendogli di fare le letture che avrebbe dovuto per coltivare il suo talento. Da Omero a Eliot, tutti gli scrittori classici e neoclassici avrebbe voluto studiare. Quando ebbi preso una certa domestichezza con i Greci e i Latini insegnati al liceo, una volta gli offrii un aiuto per riprenderne la lettura diretta, ma egli rifiutò con  voce alta e
sdegnata:"Che cosa vuoi che me ne faccia di Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone, Catullo, Orazio, Virgilio, Sallustio e Tacito soltanto? Io voglio leggere tutto, tutto, assolutamente tutto, oppure, piuttosto che questa miseria, assolutamente nulla!". Così non se ne fece niente.
Tale era il tipo. La gente comune, usuale, quella che può ritenersi normale data l'immensa volgarità dell'epoca, lo disprezzava e canzonava; alcuni lo maltrattavano anche. Io, oltre rispettarlo siccome infelice, lo trovavo interessante, talora perfino educativo, quasi sempre quale contromodello del resto, e per tempi assai limitati, in quanto temevo il contagio della debolezza sua. Comunque, finché lo frequentavo, ero gentile e disponibile ad ascoltarlo con attenzione: il vecchio sentiva la necessità di raccontare la pena del suo fallimento.

Una volta d’estate lo portai a Pesaro, a casa mia.
Appena arrivato volle andare a nuotare. Dopo qualche bracciata, tornò a riva e svenne. Disse che non mangiava da due giorni. Quella sera dunque, entrato da Lamma,  si diede a girare tra i tavoli con aria esplorativa e implorante. Guardava se conosceva qualcuno per sedersi vicino e parlare. Era alto, di età non definibile, con una curvatura stranamente deforme in cima alla spalla sinistra. Le labbra esangui e semiaperte lasciavano intravvedere una chiostra di denti radi, sbrecciati; lo sguardo degli occhi grandi, scuri conservava un bagliore fioco e intermittente. Con una mano si appoggiava su un bastone nodoso, con l'altra di tanto in tanto si toccava la schiena gemendo. Camminava in maniera maldestra: barcollava e sembrava sempre in procinto di stramazzare sul duro pavimento con tutta la sua affaticata lunghezza; si piegava su un lato, poi si raddrizzava di scatto, come se un attimo prima di ogni caduta dolorosa, forse letale, con uno sforzo titanico riuscisse a trovare energia sufficiente per rialzarsi e procedere lungo il suo faticoso cammino. Sembrava un eroe bersagliato dai colpi di un destino tenacemente ostile,  eppure incapace di averla vinta su una pena così antica e tanto temprata da infinite sciagure. Temo che quella cara persona non ci sia più, siccome saranno venti anni che non lo incontro.
Come ci vide, si mosse verso di noi: sapeva che non sarebbe stato respinto né trattato con scortesia. Può sembrare ovvio: il minimo dovuto a un infelice, eppure a Bologna in tanti gli davano la baia, come ho già detto. Alcuni lo umiliavano, altri lo picchiavano addirittura. Fin da quando ero matricola l'avevo notato quale ecce homo vilipeso e deriso negli ambienti accademici e studenteschi della città. Già in quel tempo lontano provai compassione per lui e sdegno per i suoi persecutori sadici e vili: goliardi e fannulloni vari che bivaccavano presso l'Università più antica del mondo. Più o meno fascisti.
Anche i camerieri di Lamma del resto non gli risparmiavano dosi massicce di motteggi e gomitate. Come fu giunto vicino al nostro tavolo, l'infelice mi salutò, poi, invitato, sedette. Sebbene digiuno, non volle mangiare. Lo feci parlare, ponendogli diverse domande, poiché sapevo che di questo aveva bisogno, e anche perché da lui potevo imparare qualcosa. Le sue frustrazioni di fondo erano due: non avere scritto un capolavoro e non avere mai baciato una donna. Del resto non sapeva che cosa avrebbe dovuto scrivere e quale femmina umana avrebbe voluto baciare. Disse che quando era studente nel Liceo classico di Ferrara, in italiano scritto superava di gran lunga Bassani: "Altro che Giorgio ero bravo a scrivere io!"
"Poi che cosa è successo?" domandai incuriosito.
"A vent' anni mi è caduta la mannaia sul collo". Proseguì. Accusando, oltre le persecuzioni razziali, i parenti che non gli volevano bene e non lo hanno aiutato. Tutto questo gli aveva spezzato il talento e la vita. Il vecchio amico non assolse neppure se stesso: il colpo di grazia se lo era dato da solo. "Sono io l'omicida di quest'uomo" disse indicandosi con dito tremante. Si era ucciso moralmente quando aveva messo in mani cattive il potere sulla propria persona. "Tu non farlo mai. Mai!" gridò con tono ieratico, mentre mi fissava con occhi ispirati. Trasfigurato, sembrava più grande a vedersi, e parlava come ispirato dalla potenza molto vicina di un dio, al pari della Sibilla cumana[2]: "Qualunque disgrazia possa capitarti, tu non tradire te stesso e non cedere ai mali!” Aveva ragione. Lo capivo bene. Non glielo dissi, siccome non mi avrebbe ascoltato, ché la disgrazia vera di tali infelici è la perdita dell’attenzione per gli altri. Anche io, vent'anni prima, avevo fatto uno sbaglio quasi mortale. Invece di potenziare le mie qualità tenendo gli occhi aperti sul mondo, mi ero lasciato avvilire da persone di formato men che mediocre. Mi giudicavano brutto e incapace. In
effetti di una vita da servo dei luoghi comuni, non ero, non sono capace. Sapevo fare di più e di meglio, ma non ne avevo coscienza. Ero diventato brutto poiché non credevo in me stesso.
Dopo il liceo, avevo perso la soddisfazione, l’orgoglio di essere raro, diverso dalla gente usuale. La sfiducia partiva da un indebolimento mio, contagiava le donne di casa, incoraggiava la malevolenza di quanti avevano sofferto i miei successi sportivi e scolastici. Mi massacrarono finché lasciai fare. Mi addentarono, mi squarciarono, come una muta sbrana l'animale ferito che sanguina e perde vigore. Ma sui ventitré anni reagii, con uno sforzo titanico mi rialzai e cominciai a recuperare le forze. Mi aiutò il grande movimento antiborghese del '68. Viaggiai, incontrai qualche persona per bene: diverse donne e un amico, Fulvio. Che Dio li benedica, insieme con tutti i miei alunni, poiché la salvezza definitiva venne dal rapporto vivo con loro. Dopo il primo anno di insegnamento avevo recuperato il favore di me stesso, e l'autogestione della mia vita.

L'amico anziano invece si accusava da solo di avere sotterrato i suoi talenti[3] , commettendo peccato contro se stesso. Mi faceva bene incontrarlo e ascoltarlo. Mi metteva in guardia contro le mie debolezze. Mario parlava. Ifigenia non lo ascoltava né gli rivolgeva lo sguardo. Quanto diceva non la interessava: lei non temeva di sciupare i talenti. Forse perché sentiva di non averli. Guardava in giro cercando di farsi guardare. Io ne soffrivo e la disprezzavo. Trovavo più interessante e pregevole il vecchio. Mi venne in mente una sera del giugno del '78. Stavo cenando da Lamma con Luciana ventenne, quando entrò Mario Bemporad con aria implorante, ci vide e, invitato, venne a sedersi con noi. La ragazza lo ascoltò con attenzione, lo guardò con simpatia, gli chiese di rimanere con noi quando lui accennò ad alzarsi; poi, come fummo soli, disse che quell'uomo le aveva fatto compassione: che bisognava aiutarlo. A casa ci pianse. E' di un'altra stoffa spirituale l'amica veneta. Luciana ha un’anima. Sa provare pietà in quanto è dotata di immaginazione. Finita la cena, riportai Ifigenia da suo marito e tornai a casa mia. Scrissi qualche parola sul viaggio. Mi tormentava il pensiero che avrei potuto fallire i miei bersagli, l'arte e l'amore, come Ludwig secondo di Wittelsbach-Baviera e come Mario Bemporad, ebreo di Ferrara. Due personaggi che mi piacevano molto poiché avevo non poco in comune con loro.
Andai a letto promettendomi l'amore, necessario a me stesso, e l'opera letteraria che dovevo all'umanità. Però prima bisognava conoscere una donna di grande formato spirituale e trovare qualcosa di interessante per tutti da raccontare.

Giovanni ghiselli


[1] C'è il ricordo del tovpo" letterario antieroico dello scudo abbandonato. Il prototipo, che io sappia, è Archiloco. Dopo avere confessato di averlo lasciato presso un cespuglio, il poeta di Paro esclama: "ejrrevtw: ejxau'ti" kthvsomai ouj kakivona", vada in malora, al posto suo me ne procurerò un altro, non peggiore.
[2] Cfr. Virgilio, Eneide, VI, 45 sgg.
[3] Cfr. Vangelo secondo Matteo, 25, 25: "et timens abii et abscondi talentum tuum in terra", ebbi paura e andai a nascondere il tuo talento sotto terra.

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