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Prima di passare ai
singoli autori, voglio riferire in estrema sintesi, commentare e chiarire con
esempi, il succo di quanto si legge nell'Estetica di Hegel sul
dramma antico. Si tratta di uno scritto pubblicato nel 1838, dopo la morte del
filosofo, e ricavato da appunti e lezioni tenute a Heidelberg e a Berlino negli
anni tra il 1817 e il 1829.
Per chiarire il
significato dell'oggettività del poema epico, quale l'Iliade, si può
dire che esso rappresenta spesso lo spirito originario di una nazione che mette
alla prova se stessa attraverso una guerra. Hegel nella parte dedicata
all'epica sostiene che "la poesia drammatica degli indiani o le tragedie
di Sofocle non ci danno un'immagine così totale come il Ramayana ed
il Mahabharata oppure l'Iliade e l'Odissea "
(p. 1383).
Questa affermazione è in
parte contraddetta dalla successiva sul dramma che “deve essere in generale
considerato come la fase suprema della poesia e dell'arte, perché esso si
sviluppa nella totalità più compiuta, sia rispetto al contenuto che alla sua
forma. Infatti il discorso, di fronte alle altre materie sensibili, il mamo, il
legno, il colore, il suono, è l’unico elemento degno dell’esposizione dello
spirito, e fra i generi particolari dell’arte della parola la poesia drammatica
è a sua volta quella che riunisce in sé l'oggettività dell'epos con il
principio soggettivo della lirica”[1].
Si può per lo meno
notare una contraddizione nell’Estetica di Hegel tra la “fase
suprema” costituita dal dramma e l’”immagine così totale” data dall’epica.
L'epos costituisce il
fondamento della coscienza di un popolo che viene rappresentato in collisione
con un altro popolo, di altra cultura. Anche nel dramma c'è lo scontro, ma al
suo centro il più delle volte vediamo un individuo che lotta con un
antagonista, o con delle situazioni, o con il destino.
Non sempre, vorrei
precisare: infatti nei Persiani [2] di Eschilo assistiamo ad una
guerra tra due civiltà, la greca e la persiana, che rappresentano
rispettivamente la libertà e il dispotismo, l'ordine civile e il caos
barbarico.
Il conflitto può
essere anche interiorizzato; allora il protagonista ha l'avversario dentro se
stesso, e vive in una contraddizione che lo dilania. Medea soffre
con piena coscienza il conflitto tra passione e ragione, e lo teorizza quando
cerca il coraggio di uccidere i figli per punire Giasone che l'ha tradita (vv.
1078 - 1080). "Questo costante riferimento della realtà nel suo insieme
all'interno dell'individuo (...) costituisce il principio propriamente lirico
della poesia drammatica" (Estetica , p. 1538).
Nell'Ippolito[3] Fedra, la matrigna innamorata del
figliastro, è dilaniata da un conflitto interno che le suggerisce questa
considerazione: " il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo
costruiamo nella fatica, alcuni per infingardaggine,/alcuni anteponendogli
qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe
conversazioni, l'ozio , diletto cattivo, e l'irrisolutezza"(vv. 380 - 385).
La luce di queste
citazioni rende relativamente chiara la proverbiale oscurità di Hegel[4] .
Sentiamo anche Cacciari:
“Per l’eroe tragico è necessario il ‘contesto’, è necessario il confronto con
l’ethos. La conciliazione tra il carattere dell’eroe e l’ethos comune,
lo xynón, diviene problematica già nel corso della
tragedia classica, ma è assunta a tema nel dramma moderno”[5].
Si può pensare
alla Medea di Euripide (431 a. C.) e a “Casa di bambola”
(1879) di Ibsen.
Caratteristica del
dramma dunque è la collisione, interna o esterna, tra due unilateralità che
dopo aspra lotta possono arrivare ad una sintesi finale corrispondente al
"divino stesso come totalità in sé" (Estetica, p.1540).
L'ampia e profonda visione del poeta drammatico giunge a vedere la posizione
delle unilateralità: “Con eguale chiarezza deve stargli davanti quel che è
giusto o è sbagliato nelle passioni che tumultuano nel cuore umano e lo
spingono ad agire, affinché, laddove per gli uomini comuni sembra che dominino
solo oscurità, caso e confusione, si riveli per lui il reale effettuarsi di
quel che è in sé razionale e reale. Quindi il poeta drammatico non deve
accontentarsi di una visione meramente indeterminata di quel che si agita nella
profondità dell’animo, né deve solo fissare unilateralmente un qualsiasi
esclusivo stato d’animo e una limitata parzialità nel modo di sentire e di
vedere il mondo, ma ha necessità della più grande apertura e della più
comprensiva vastità di spirito. Infatti le potenze spirituali (…) nel dramma si
presentano, secondo il loro contenuto sostanziale semplice, reciprocamente opposte
come pathos di individui, per cui il dramma è la soluzione dell’unilateralità
di queste potenze che divengono autonome negli individui "(p. 1541).
La collisione tra le
unilateralità può risolversi con la distruzione oppure con la conciliazione.
"Nella tragedia gli
individui si distruggono per l'unilateralità della loro ferma volontà e del
loro saldo carattere oppure devono rassegnarsi ad accogliere in sé ciò a cui si
oppongono in modo sostanziale"(p. 1589). L'Antigone viene
considerata " l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente"(p.
1613)[6].
Questa tragedia sopprime
le due unilateralità in conflitto: quella di Antigone e quella di Creonte.
" Antigone vive sotto il potere statale di Creonte; ella stessa è figlia
di re e promessa di Emone, cosicché dovrebbe ubbidienza al comando del principe.
Ma anche Creonte che è dal canto suo padre e sposo, dovrebbe rispettare la
santità del sangue e non comandare ciò che è contrario a questa pietà. Così in
entrambi è immanente ciò contro cui si ergono rispettivamente, ed essi vengono
presi e infranti da ciò che appartiene alla cerchia stessa della loro
esistenza.
Antigone subisce
la morte prima di avere gioito della danza nuziale, ma anche Creonte viene
punito nel figlio e nella moglie, che si danno la morte, il primo per quella di
Antigone, l'altra per quella di Emone. Di tutti i capolavori del mondo antico e
moderno - li conosco più o meno tutti ed ognuno dovrebbe e potrebbe conoscerli
- l'Antigone mi pare per quest'aspetto come l'opera d'arte più
eccellente e più soddisfacente. L'esito tragico non ha però sempre bisogno
della morte dei protagonisti per sopprimere le due unilateralità ed il loro
grande onore. E' noto infatti che le Eumenidi di Eschilo non
terminano con la morte di Oreste o con la rovina delle Eumenidi, queste
vendicatrici del sangue materno e della pietà di fronte ad Apollo, che vuole
salvaguardare la dignità e il rispetto del capo di famiglia e del re e che ha
istigato Oreste ad uccidere Clitennestra; ma ad Oreste la punizione viene
condonata e ad entrambe le divinità è fatto onore"[7].
Hegel menziona le unità
aristoteliche, notando che nella Poetica non c'è traccia di quella
di luogo, contraddetta del resto dalla prassi dei tragediografi: "nelle Eumenidi
di Eschilo e nell'Aiace di Sofocle la scena cambia"(Estetica,
p.1543).
Infatti nella prima
tragedia la scena si sposta da Delfi ad Atene; nella seconda, a dire il vero,
lo spostamento è scarsamente rilevabile poiché il dramma si svolge tutto nel
campo greco sulla riva dell'Ellesponto.
Anche per Hegel "la
legge veramente inviolabile è invece l’unità di azione" (p. 1545) poiché
essa si basa sulle collisioni, e l'unità è necessaria per mostrare quel
movimento totale e al tempo stesso eliminare le contraddizioni con una
soluzione o con l’altra.
Una regola
ineliminabile è che la progressione della tragedia sia più veloce di quella
epica:"Il corso propriamente drammatico è dato dal progredire continuo
verso la catastrofe finale"(p. 1548). Le scene episodiche, tipiche
dell'epos, che "senza portare avanti l'azione, si limitano ad ostacolare
lo svolgimento, sono contrarie al carattere del dramma"(p. 1549).
Il poeta non deve dare
spazio alle ire sfrenate dei personaggi “e l’orrendo, in particolare, raffredda
più che non infiammi” (p. 1554).
Si può ricordare
il to; teratw'de~ della Poetica (1453b,
9), il mostruoso sconsigliato da Aristotele.
“E non giova
niente al poeta descrivere le passioni in modo così commovente; il cuore si
sente soltanto lacerato, e ci si volge altrove. Infatti vi manca il positivo, la
conciliazione, che non deve mai essere assente nell'arte. Gli antichi, invece,
nelle loro tragedie, operavano soprattutto attraverso il lato oggettivo del
pathos, a cui al contempo non manca neppure, nella misura in cui l’antichità lo
richiede, l’individualità umana. Anche i drammi di Schiller posseggono questo
pathos di un animo grande, un pathos che penetra profondamente ed ovunque si
mostra e si esprime come base dell’azione."(p. 1555). Parole di colore
oscuro invero. Si possono ignorare.
Accettabile è la
conclusione per cui nella grandezza dello spirito “è ancora Shakespeare a
spiccare”
Per quanto
riguarda la metrica, Hegel riconosce l'opportunità, nelle parti dialogate, del
giambo: “Al metro drammatico conviene una via di mezzo fra il calmo ed uniforme
scorrere dell’esametro e la misura sillabica più rotta e frazionata della
lirica. A questo proposito si raccomanda su tutti il metro giambico”[8].
In effetti il
trimetro giambico si confà all'apprendimento mnemonico del testo per il ritmo
con il quale viene letto.
“Se si prescinde dalle
melodie e dai kommoí che erano composti in metro lirico e
dunque implicavano una resa affidata al canto, gli attori interpretavano le
parti loro assegnate recitando in trimetri giambici, assai più raramente in
tetrametri trocaici catalettici: questi ultimi venivano forse resi in parakataloghé (recitativo)
nelle scene di più acuta tensione. I loro interventi prevedevano talora anche
sequenze (in recitato o in recitativo) composte in metro anapestico. Le parti
recitate erano in dialetto attico, con la mistione di alcuni elementi di
ionico. E ciò, oltre al metro, contribuiva a differenziarle dalle sezioni
liriche, in primis da quelle corali, caratterizzate da una
lieve coloritura dorica”[9].
Il trimetro giambico
“sembra evolvere , nel corso del tempo, nella direzione di una sempre maggiore
flessibilità: il trimetro euripideo, ad esempio, soprattutto nelle tragedie più
tarde, conosce una percentuale di “soluzioni” (scioglimento dell’elemento lungo
in due brevi, per cui il “piede” finisce col constare di tre sillabe) molto più
elevata di quella del trimetro di Eschilo e di Sofocle. Proprio fondandosi sul
presupposto che all’aumento dei “piedi trisillabici” corrisponda una fase di
composizione più recente - il che sembra avvalorato, in linea generale,
dall’evidenza delle tragedie di cui sappiamo con certezza la data di
rappresentazione - vari studiosi hanno tentato di fissare la cronologia
relativa dei drammi euripidei. E’ evidente tuttavia che il criterio non può
essere applicato in modo meccanico: vero è, ad esempio, che, secondo le
statistiche di Ceadel, nell’Andromaca ( rappresentata nei primi
anni della guerra del Peloponneso, tra il 429 e il 425 a. C.) la percentuale di
soluzioni è dell’11%, nelle Troiane (416 a. C.) è del 21,2% e
nell’Oreste (408 a. C.) è del 39, 4% ”; ma nelle Baccanti e
nell’Ifigenia in Aulide , che pure sono posteriori all’Oreste,
le percentuali decrescono rispettivamente al 37, 6% e al 34, 7%”[10].
“La capitale
richiesta” di Hegel al poeta drammatico è “che egli debba pervenire ad una
visione sommamente profonda dell’essenza dell’agire umano e del governo divino
del mondo, e ad un’altrettale visione di una manifestazione chiara e viva di
questa eterna sostanza di tutti i caratteri, le passioni ed i destini umani”
(p. 1564).
giovanni ghiselli
[1] Estetica, p. 1533 - 1534.
[2] Del 472 a. C.
[3] Del 428 a. C.
[4] Tanto che Schopenhauer scriveva della
“pseudofilosofia di Hegel. Forse che per essa è stato in qualche modo di danno
il fatto di trarre il suo pensiero fondamentale dalla più assurda tra le
trovate, di rappresentare un mondo alla rovescia e una pagliacciata filosofica,
il fatto insomma che il suo contenuto si riducesse alla chiacchiera più vuota e
più priva di senso, di cui mai si siano pasciuti gli imbecilli, e che la sua
esposizione (...) fosse il più disgustoso e più assurdo dei guazzabugli, tale
da ricordare anzi il delirio dei pazzi? (…) E l’apoteosi hegeliana dello Stato
è stata portata fino al comunismo", Parerga e Paralipomena ,
I, p. 206 e p. 207.
[5] Hamletica, p. 83.
[6] “Il culto per Sofocle, retaggio
dell’umanesimo classicistico di Lessing e di Winckelmann, dilagava fra i
filosofi così come fra i filologi, concordi nel celebrare i tre drammi sul
ciclo di Edipo come massimo picco dell’arte tragica greca. Fra gli stessi
maestri e amici di Droysen , né Hegel, né Boeckh, né Wilcker, né Bergk erano
immuni dalla venerazione per Sofocle e dalla diffidenza verso Euripide. Perciò
doveva destare quasi stupore il fatto che Droysen, traduttore entusiasta di
Eschilo, s’impegnasse in una riabilitazione di Euripide. Beninteso, egli
condivideva il giudizio estetico dei suoi contemporanei circa la superiorità
dei due tragici più anziani; tuttavia rivalutava l’arte di Euripide dal punto
di vista storico e filosofico” (J. G. Droysen, Aristofane, a cura
di G. Boncina, p. 56 dell’Introduzione.
[7]Hegel, Estetica , pp. 1612
- 1613
[8] Hegel, Estetica , p.
1555.
[9] Di Marco, Op. cit., p. 217.
[10] Di Marco, Op. cit., p. 218.
Gentile prof. Ghiselli,come posso modificare in bianco e nero lo scritto del blog? Grazie.
RispondiEliminaPer quanto riguarda le lezioni sulla tragedia, ai miei interrogativi dà una risposta il Cristianesimo, non quello becero dei bigotti, ma Umberto Galimberti, citando il Manzoni lo accusa di aver affidato tutto alla Provvidenza, lasciando l'individuo senza responsabilità a differenza dei Greci, come ho trovato su un sito f.b., che pubblica il pensiero di Galimberti.
Grazie, la saluto cordialmente e buon anno Brigida Mele