mercoledì 30 dicembre 2020

6 incontri sulla tragedia greca. XVI assaggio. L’Estetica di Hegel sulla tragedia

Hegel
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Prima di passare ai singoli autori, voglio riferire in estrema sintesi, commentare e chiarire con esempi, il succo di quanto si legge nell'Estetica di Hegel sul dramma antico. Si tratta di uno scritto pubblicato nel 1838, dopo la morte del filosofo, e ricavato da appunti e lezioni tenute a Heidelberg e a Berlino negli anni tra il 1817 e il 1829.

Per chiarire il significato dell'oggettività del poema epico, quale l'Iliade, si può dire che esso rappresenta spesso lo spirito originario di una nazione che mette alla prova se stessa attraverso una guerra. Hegel nella parte dedicata all'epica sostiene che "la poesia drammatica degli indiani o le tragedie di Sofocle non ci danno un'immagine così totale come il Ramayana ed il Mahabharata oppure l'Iliade e l'Odissea " (p. 1383).

 

Questa affermazione è in parte contraddetta dalla successiva sul dramma che “deve essere in generale considerato come la fase suprema della poesia e dell'arte, perché esso si sviluppa nella totalità più compiuta, sia rispetto al contenuto che alla sua forma. Infatti il discorso, di fronte alle altre materie sensibili, il mamo, il legno, il colore, il suono, è l’unico elemento degno dell’esposizione dello spirito, e fra i generi particolari dell’arte della parola la poesia drammatica è a sua volta quella che riunisce in sé l'oggettività dell'epos con il principio soggettivo della lirica”[1]

Si può per lo meno notare una contraddizione nell’Estetica di Hegel tra la “fase suprema” costituita dal dramma e l’”immagine così totale” data dall’epica.

 

 

L'epos costituisce il fondamento della coscienza di un popolo che viene rappresentato in collisione con un altro popolo, di altra cultura. Anche nel dramma c'è lo scontro, ma al suo centro il più delle volte vediamo un individuo che lotta con un antagonista, o con delle situazioni, o con il destino.

Non sempre, vorrei precisare: infatti nei Persiani [2] di Eschilo assistiamo ad una guerra tra due civiltà, la greca e la persiana, che rappresentano rispettivamente la libertà e il dispotismo, l'ordine civile e il caos barbarico.

 Il conflitto può essere anche interiorizzato; allora il protagonista ha l'avversario dentro se stesso, e vive in una contraddizione che lo dilania. Medea soffre con piena coscienza il conflitto tra passione e ragione, e lo teorizza quando cerca il coraggio di uccidere i figli per punire Giasone che l'ha tradita (vv. 1078 - 1080). "Questo costante riferimento della realtà nel suo insieme all'interno dell'individuo (...) costituisce il principio propriamente lirico della poesia drammatica" (Estetica , p. 1538).

Nell'Ippolito[3] Fedra, la matrigna innamorata del figliastro, è dilaniata da un conflitto interno che le suggerisce questa considerazione: " il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica, alcuni per infingardaggine,/alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio , diletto cattivo, e l'irrisolutezza"(vv. 380 - 385).

La luce di queste citazioni rende relativamente chiara la proverbiale oscurità di Hegel[4] .

 

Sentiamo anche Cacciari: “Per l’eroe tragico è necessario il ‘contesto’, è necessario il confronto con l’ethos. La conciliazione tra il carattere dell’eroe e l’ethos comune, lo xynón, diviene problematica già nel corso della tragedia classica, ma è assunta a tema nel dramma moderno”[5]

Si può pensare alla Medea di Euripide (431 a. C.) e a “Casa di bambola” (1879) di Ibsen.

 

Caratteristica del dramma dunque è la collisione, interna o esterna, tra due unilateralità che dopo aspra lotta possono arrivare ad una sintesi finale corrispondente al "divino stesso come totalità in sé" (Estetica, p.1540). L'ampia e profonda visione del poeta drammatico giunge a vedere la posizione delle unilateralità: “Con eguale chiarezza deve stargli davanti quel che è giusto o è sbagliato nelle passioni che tumultuano nel cuore umano e lo spingono ad agire, affinché, laddove per gli uomini comuni sembra che dominino solo oscurità, caso e confusione, si riveli per lui il reale effettuarsi di quel che è in sé razionale e reale. Quindi il poeta drammatico non deve accontentarsi di una visione meramente indeterminata di quel che si agita nella profondità dell’animo, né deve solo fissare unilateralmente un qualsiasi esclusivo stato d’animo e una limitata parzialità nel modo di sentire e di vedere il mondo, ma ha necessità della più grande apertura e della più comprensiva vastità di spirito. Infatti le potenze spirituali (…) nel dramma si presentano, secondo il loro contenuto sostanziale semplice, reciprocamente opposte come pathos di individui, per cui il dramma è la soluzione dell’unilateralità di queste potenze che divengono autonome negli individui "(p. 1541).

La collisione tra le unilateralità può risolversi con la distruzione oppure con la conciliazione.

"Nella tragedia gli individui si distruggono per l'unilateralità della loro ferma volontà e del loro saldo carattere oppure devono rassegnarsi ad accogliere in sé ciò a cui si oppongono in modo sostanziale"(p. 1589). L'Antigone viene considerata " l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente"(p. 1613)[6]

Questa tragedia sopprime le due unilateralità in conflitto: quella di Antigone e quella di Creonte. " Antigone vive sotto il potere statale di Creonte; ella stessa è figlia di re e promessa di Emone, cosicché dovrebbe ubbidienza al comando del principe. Ma anche Creonte che è dal canto suo padre e sposo, dovrebbe rispettare la santità del sangue e non comandare ciò che è contrario a questa pietà. Così in entrambi è immanente ciò contro cui si ergono rispettivamente, ed essi vengono presi e infranti da ciò che appartiene alla cerchia stessa della loro esistenza.

 Antigone subisce la morte prima di avere gioito della danza nuziale, ma anche Creonte viene punito nel figlio e nella moglie, che si danno la morte, il primo per quella di Antigone, l'altra per quella di Emone. Di tutti i capolavori del mondo antico e moderno - li conosco più o meno tutti ed ognuno dovrebbe e potrebbe conoscerli - l'Antigone mi pare per quest'aspetto come l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente. L'esito tragico non ha però sempre bisogno della morte dei protagonisti per sopprimere le due unilateralità ed il loro grande onore. E' noto infatti che le Eumenidi di Eschilo non terminano con la morte di Oreste o con la rovina delle Eumenidi, queste vendicatrici del sangue materno e della pietà di fronte ad Apollo, che vuole salvaguardare la dignità e il rispetto del capo di famiglia e del re e che ha istigato Oreste ad uccidere Clitennestra; ma ad Oreste la punizione viene condonata e ad entrambe le divinità è fatto onore"[7].

 

 

Hegel menziona le unità aristoteliche, notando che nella Poetica non c'è traccia di quella di luogo, contraddetta del resto dalla prassi dei tragediografi: "nelle Eumenidi di Eschilo e nell'Aiace di Sofocle la scena cambia"(Estetica, p.1543).

Infatti nella prima tragedia la scena si sposta da Delfi ad Atene; nella seconda, a dire il vero, lo spostamento è scarsamente rilevabile poiché il dramma si svolge tutto nel campo greco sulla riva dell'Ellesponto.

Anche per Hegel "la legge veramente inviolabile è invece l’unità di azione" (p. 1545) poiché essa si basa sulle collisioni, e l'unità è necessaria per mostrare quel movimento totale e al tempo stesso eliminare le contraddizioni con una soluzione o con l’altra.

 Una regola ineliminabile è che la progressione della tragedia sia più veloce di quella epica:"Il corso propriamente drammatico è dato dal progredire continuo verso la catastrofe finale"(p. 1548). Le scene episodiche, tipiche dell'epos, che "senza portare avanti l'azione, si limitano ad ostacolare lo svolgimento, sono contrarie al carattere del dramma"(p. 1549).

Il poeta non deve dare spazio alle ire sfrenate dei personaggi “e l’orrendo, in particolare, raffredda più che non infiammi” (p. 1554).

 

Si può ricordare il to; teratw'de~ della Poetica (1453b, 9), il mostruoso sconsigliato da Aristotele.

 

 “E non giova niente al poeta descrivere le passioni in modo così commovente; il cuore si sente soltanto lacerato, e ci si volge altrove. Infatti vi manca il positivo, la conciliazione, che non deve mai essere assente nell'arte. Gli antichi, invece, nelle loro tragedie, operavano soprattutto attraverso il lato oggettivo del pathos, a cui al contempo non manca neppure, nella misura in cui l’antichità lo richiede, l’individualità umana. Anche i drammi di Schiller posseggono questo pathos di un animo grande, un pathos che penetra profondamente ed ovunque si mostra e si esprime come base dell’azione."(p. 1555). Parole di colore oscuro invero. Si possono ignorare.

Accettabile è la conclusione per cui nella grandezza dello spirito “è ancora Shakespeare a spiccare”

 

 Per quanto riguarda la metrica, Hegel riconosce l'opportunità, nelle parti dialogate, del giambo: “Al metro drammatico conviene una via di mezzo fra il calmo ed uniforme scorrere dell’esametro e la misura sillabica più rotta e frazionata della lirica. A questo proposito si raccomanda su tutti il metro giambico”[8].

 In effetti il trimetro giambico si confà all'apprendimento mnemonico del testo per il ritmo con il quale viene letto.

 

“Se si prescinde dalle melodie e dai kommoí che erano composti in metro lirico e dunque implicavano una resa affidata al canto, gli attori interpretavano le parti loro assegnate recitando in trimetri giambici, assai più raramente in tetrametri trocaici catalettici: questi ultimi venivano forse resi in parakataloghé (recitativo) nelle scene di più acuta tensione. I loro interventi prevedevano talora anche sequenze (in recitato o in recitativo) composte in metro anapestico. Le parti recitate erano in dialetto attico, con la mistione di alcuni elementi di ionico. E ciò, oltre al metro, contribuiva a differenziarle dalle sezioni liriche, in primis da quelle corali, caratterizzate da una lieve coloritura dorica”[9].

 

Il trimetro giambico “sembra evolvere , nel corso del tempo, nella direzione di una sempre maggiore flessibilità: il trimetro euripideo, ad esempio, soprattutto nelle tragedie più tarde, conosce una percentuale di “soluzioni” (scioglimento dell’elemento lungo in due brevi, per cui il “piede” finisce col constare di tre sillabe) molto più elevata di quella del trimetro di Eschilo e di Sofocle. Proprio fondandosi sul presupposto che all’aumento dei “piedi trisillabici” corrisponda una fase di composizione più recente - il che sembra avvalorato, in linea generale, dall’evidenza delle tragedie di cui sappiamo con certezza la data di rappresentazione - vari studiosi hanno tentato di fissare la cronologia relativa dei drammi euripidei. E’ evidente tuttavia che il criterio non può essere applicato in modo meccanico: vero è, ad esempio, che, secondo le statistiche di Ceadel, nell’Andromaca ( rappresentata nei primi anni della guerra del Peloponneso, tra il 429 e il 425 a. C.) la percentuale di soluzioni è dell’11%, nelle Troiane (416 a. C.) è del 21,2% e nell’Oreste (408 a. C.) è del 39, 4% ”; ma nelle Baccanti e nell’Ifigenia in Aulide , che pure sono posteriori all’Oreste, le percentuali decrescono rispettivamente al 37, 6% e al 34, 7%”[10]

 

 “La capitale richiesta” di Hegel al poeta drammatico è “che egli debba pervenire ad una visione sommamente profonda dell’essenza dell’agire umano e del governo divino del mondo, e ad un’altrettale visione di una manifestazione chiara e viva di questa eterna sostanza di tutti i caratteri, le passioni ed i destini umani” (p. 1564).

 

giovanni ghiselli



[1] Estetica, p. 1533 - 1534.

[2] Del 472 a. C.

[3] Del 428 a. C.

[4] Tanto che Schopenhauer scriveva della “pseudofilosofia di Hegel. Forse che per essa è stato in qualche modo di danno il fatto di trarre il suo pensiero fondamentale dalla più assurda tra le trovate, di rappresentare un mondo alla rovescia e una pagliacciata filosofica, il fatto insomma che il suo contenuto si riducesse alla chiacchiera più vuota e più priva di senso, di cui mai si siano pasciuti gli imbecilli, e che la sua esposizione (...) fosse il più disgustoso e più assurdo dei guazzabugli, tale da ricordare anzi il delirio dei pazzi? (…) E l’apoteosi hegeliana dello Stato è stata portata fino al comunismo", Parerga e Paralipomena , I, p. 206 e p. 207. 

[5] Hamletica, p. 83.

[6] “Il culto per Sofocle, retaggio dell’umanesimo classicistico di Lessing e di Winckelmann, dilagava fra i filosofi così come fra i filologi, concordi nel celebrare i tre drammi sul ciclo di Edipo come massimo picco dell’arte tragica greca. Fra gli stessi maestri e amici di Droysen , né Hegel, né Boeckh, né Wilcker, né Bergk erano immuni dalla venerazione per Sofocle e dalla diffidenza verso Euripide. Perciò doveva destare quasi stupore il fatto che Droysen, traduttore entusiasta di Eschilo, s’impegnasse in una riabilitazione di Euripide. Beninteso, egli condivideva il giudizio estetico dei suoi contemporanei circa la superiorità dei due tragici più anziani; tuttavia rivalutava l’arte di Euripide dal punto di vista storico e filosofico” (J. G. Droysen, Aristofane, a cura di G. Boncina, p. 56 dell’Introduzione. 

[7]Hegel, Estetica , pp. 1612 - 1613

[8] Hegel, Estetica , p. 1555.

[9] Di Marco, Op. cit., p. 217.

[10] Di Marco, Op. cit., p. 218.

1 commento:

  1. Gentile prof. Ghiselli,come posso modificare in bianco e nero lo scritto del blog? Grazie.
    Per quanto riguarda le lezioni sulla tragedia, ai miei interrogativi dà una risposta il Cristianesimo, non quello becero dei bigotti, ma Umberto Galimberti, citando il Manzoni lo accusa di aver affidato tutto alla Provvidenza, lasciando l'individuo senza responsabilità a differenza dei Greci, come ho trovato su un sito f.b., che pubblica il pensiero di Galimberti.
    Grazie, la saluto cordialmente e buon anno Brigida Mele

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