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Anche il coro, afferma Aristotele,
deve essere parte del tutto e partecipare all'azione, al pari di uno degli
attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).
Dopo Euripide le parti cantate non
sono connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima
a{/dousin (1456a,
29) i cori cantano intermezzi.
La funzione
del coro.
Senofonte, Demostene, Hegel,
Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray.
Voglio riferire alcune
interpretazioni sulla funzione del coro nella tragedia.
Senofonte nei Memorabili fa
dire a Socrate che i cori tragici sono un modello di ordine e disciplina: “non
vedi - dice a Pericle che si lamentava della scarsa disciplina degli Ateniesi -
come nei cori tragici non sono inferiori a nessuno nell’obbedire agli
istruttori ?” (3, 5, 18).
Un analogo elogio dei cori si trova
nella I Filippica di Demostene il quale contrappone
la serietà dell’organizzazione delle feste Dionisie e Panatenee al disordine,
alla confusione e all’improvvisazione delle spedizioni militari. Le feste
infatti sono rigorosamente disciplinate: nulla in queste è stato trascurato,
lasciato privo di esame e non ben definito: “oujde;n
ajnexevtaston oujd j ajovriston ejn touvtoi~ hjmevlhtai ( 36).
Secondo Hegel il Coro della tragedia "non agisce ed ha dinanzi a
sé solo l'universale"[1].
Il coro è la "coscienza
sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi conflitti e prepara la
soluzione; è, di fronte ai singoli eroi, il popolo quale terreno fecondo da cui
gli individui, quali fiori e piante tese in alto, nascono dal loro proprio
suolo" (Estetica, p.1604).
Il coro può anche"essere
paragonato al tempio dell'architettura il quale circonda la statua del dio, che
qui diviene l'eroe in azione"(p. 1605).
Leopardi nello Zibaldone afferma
che l'uso del coro è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la
principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella
letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso
disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo
indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la
moltitudine" (2804). Il canto corale, a più voci, dunque entra nella sua
poetica del vago e dell’indefinito
Manzoni nella Prefazione a Il
conte di Carmagnola sostiene che dei "Cori dei greci" si possa
rinnovare lo spirito "inserendo degli squarci lirici composti sull'idea di
que' Cori". Questi squarci, per il fatto di essere indipendenti
dall'azione, possono avere "uno slancio più lirico, più variato e più
fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d'essere senza
inconvenienti: non essendo legati con l'orditura dell'azione, non saranno mai
cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente
un altro vantaggio per l'arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio
dov'egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione
d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i propri
sentimenti".
In La nascita della tragedia
Nietzsche ricorda la tradizione la quale "ci dice con piena
risolutezza che la tragedia è sorta dal coro tragico, e che
originariamente essa era soltanto coro e niente altro che coro; donde ci viene
l’obbligo di scrutare nel cuore di questo coro tragico come nel vero e proprio
dramma originario, senza in qualche modo accontentarci delle frasi retoriche
correnti - che esso era lo spettatore ideale o che doveva rappresentare il
popolo di fronte alla regione regale della scena (...)
dato che da quelle origini puramente
religiose rimane esclusa tutta la contrapposizione tra popolo e re, e in genere
qualsiasi sfera politico - sociale "[2].
Invero la “sfera politico - sociale”
è tutt’altro che esclusa dai drammi dei tre grandi tragediografi.
L'idea di identificare il coro
come lo spettatore ideale risale ad A. W. Schlegel[3] e deve avere fatto epoca, poiché la
ricorda anche Manzoni nella già menzionata Prefazione: “ Mi rimane a render
conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non
essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio o un
enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò
che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da
riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira,
come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E
poco sotto: Vollero i Greci che in ogni dramma il Coro fosse prima di
tutto il rappresentante dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale:
esso temperava le impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta
troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le
sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un
espressione lirica e armonica e lo conduceva così nel campo più tranquillo
della contemplazione. Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono
combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il
loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti
sull’idea di que’ Cori”[4]. Così siamo tornati e ci colleghiamo alla
citazione precedente.
Nietzsche invece rifiuta, quasi
con sdegno, l’asserzione che il coro corrisponda allo spettatore ideale:
“un'affermazione rozza e non scientifica, ma brillante, che però ha ricevuto il
suo splendore solo dalla forma concentrata della sua espressione, dalla prevenzione
prettamente germanica a favore di tutto ciò che viene detto ideale, e dal
nostro stupore momentaneo"[5].
La formula non regge siccome lo
spettatore e il coro sono entità differenti.
Il pubblico ha la consapevolezza di
assistere a un'opera d'arte, non a una realtà empirica, mentre il "coro
tragico dei Greci è costretto a riconoscere nelle figure della scena esistenze
concrete. Il coro delle Oceanidi crede di vedere realmente davanti a sé il
titano Prometeo, e ritiene se stesso altrettanto reale quanto il dio della
scena"[6].
Maggiore credito viene data dal
filosofo tedesco alla definizione proposta nella "famosa prefazione
alla Sposa di Messina , da Schiller, che considerava il
coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per
isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la
sua libertà poetica(…) L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il
quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in
arte (...) Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la
giusta veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro
della tragedia originaria; è un terreno molto al di sopra del sentiero reale
dei mortali (...) La tragedia si è sviluppata su questo fondamento e certo già
per questo è stata fin dal principio dispensata da una penosa riproduzione
della realtà (…) Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà
religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto ( ...) il
Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso
rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima
Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada
dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si
sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della
tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli
abissi fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che
riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla fine
in noi da ogni vera tragedia - lo dico fin d’ora - per cui la vita è, a
dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa,
questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come
coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni
civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei
popoli, rimangono eternamente gli stessi "[7].
Da una parte è vero che l'uomo
moderno "non è se non un centauro storpio e mutilato il quale ricostituisce
il mito primitivo riconnettendo indissolubilmente il suo genio all'energia
atroce della natura"[8]. Né è falso quanto afferma Bernardin
De Saint - Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente
piena di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più comprendere
"quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[9].
D’altra parte la componente
istintiva, prima repressa poi scatenata alla distruzione, mai applicata
all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach alla morte,
preannunciata da una fantasia onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti:"
Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira
accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di
accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi
l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la
formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia
pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e
carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando
il sangue che colava sulle membra"[10].
Quanto alla “consolazione
metafisica”, la cui scomparsa Nietzsche in La nascita della tragedia,
attribuisce a Euripide[11], quale colpa, nel Tentativo di
autocritica aggiunto nel 1886 a quest’opera giovanile , essa verrà
ripudiata come un errore dovuto alla prolissità della giovinezza appunto,
all’influenza del romanticismo e del cristianesimo: “metafisicamente consolati,
insomma come finiscono i romantici, cristianamente (…) No!
Dovreste prima imparare l’arte della consolazione dell’al di qua”.
Ma torniamo alle pagine e alla
consolazione metafisica della stesura del 1871.
“Con questo coro trova consolazione
il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più
aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di
distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della
natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della
volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé la vita (…) In questo
senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta
uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e
provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla
nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si
pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini[12]. La conoscenza uccide l'azione, per agire
occorre essere avvolti nell'illusione"[13].
L'arte però ci salva dalla negazione
della volontà:"Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si
avvicina, come maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è capace di
volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza
in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime come
repressione artistica dell’atrocità e il comico come sfogo
artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo,
ecco l'azione salvatrice dell'arte greca "[14].
Il coro "può essere
inteso soltanto come causa della tragedia e del tragico in
genere"[15].
Sofocle però comincia a
ridurre questa funzione:"Già in Sofocle appare quella perplessità riguardo
al coro - un segno importante che già in lui il terreno dionisiaco della
tragedia comincia a sgretolarsi. Egli non osa più affidare al coro la parte
principale e più efficace, e ne limita invece a tal punto il dominio, che esso
appare ora quasi coordinato agli attori, come se venisse sollevato
dall'orchestra e portato in scena: con ciò certo la sua essenza è totalmente
distrutta, per quanto Aristotele[16] dia la sua approvazione proprio a
questa concezione del coro. Quello spostamento della posizione del coro, che
comunque Sofocle ha raccomandato con la sua prassi e, secondo la tradizione,
addirittura con uno scritto, è il primo passo verso la distruzione del
coro, le cui fasi si susseguono con spaventosa rapidità in Euripide, in Agatone
e nella commedia nuova. La dialettica ottimistica scaccia la musica
dalla tragedia con la sferza dei suoi sillogismi, cioè distrugge l'essenza
della tragedia, che si può interpretare unicamente come una manifestazione e
raffigurazione di stati dionisiaci, come simbolizzazione della musica, come il
mondo di sogno di un'ebbrezza dionisiaca"[17].
Certo è che dal ditirambo
originario, a Eschilo a Euripide, così come pure nella commedia, dal primo
all’ultimo Aristofane, il coro perde progressivamente importanza, a mano a mano
che ne acquista l'individuo. sganciandosi sempre più dalla città, dalla
religione, dalla stirpe.
Il coro è sempre la parte che irrora il complesso dell'opera di splendore
lirico. Esso, sostiene Gilbert Murray[18] traduce
il particolare in universale, e trasforma la sventura in poesia. Le sofferenze
vengono redente in bellezza dalle parole, dalla musica e dalla danza. I coreuti
talora sono esseri soprannaturali come le Eumenidi , talora umani
invasati o attraversati da grandi emozioni, come le Baccanti .
Il canto di queste creature ci porta lontano dal contingente, a volte dalla
stessa trama del dramma. Murray fa l'esempio del quinto Stasimo
della Medea , il canto successivo all'infanticidio. Nella
seconda antistrofe (vv. 1282 - 1292) le donne di Corinto, che più volte hanno
espresso solidarietà alla barbara maltrattata, cantano:
"Di una sola donna tra quelle che vissero un tempo/ho sentito dire che
scagliò le mani contro i figli:/Ino resa pazza dagli dèi, quando la moglie/di
Zeus la cacciò da casa di corsa./Si getta la disgraziata nel mare/dopo l'empia
strage dei figli,/e avere teso il piede oltre la riva marina,/e muore una morte
comune con le sue creature./Quale altra atrocità potrebbe accadere?/oh letto
delle donne/causa di molti travagli, quanti mali hai già fatto ai
mortali!".
Il coro dunque, commenta il Murray, ci porta lontano. L'urlo di morte non
viene dalla stanza accanto, ma è l'eco di un pianto che risuona dal fondo dei
secoli. La tragedia di Medea è assimilata a quella di Ino, figlia di Cadmo
fatta impazzire da Era.
La Memoria, madre delle Muse ha
compiuto la sua opera. Ansie, attaccamenti, frivolezze, ogni cosa transitoria
svanisce, e, come stelle nella notte, brillano il bello e l'eterno.
Tale potenza di trasfigurazione dunque si ottiene per mezzo del coro
che canta non solo la sofferenza ma anche la felicità dell'uomo. Quando le
forze malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che rimane
nell'anima qualche cosa che sfugge per sempre al loro potere e ha la forza di
rendere bella la vita. Così Euripide trasfigura la realtà tragica in poesia.
Così i delitti più atroci, perfino l’assassinio dei figli, o dei genitori,
possono assumere una dignità estetica e religiosa: “ Proust ricordava che nessun altare
fu considerato dagli antichi più sacro, circondato da più profonda venerazione
e superstizione quanto le tombe d’Edipo a Colono e di Oreste a Sparta”[19].
"La realizzazione delle parti corali della tragedia greca
costituisce il punto dolente di ogni allestimento moderno. Il teatro borghese
da Menandro a Pirandello e oltre non ammette la coralità. Nella prefazione
al Conte di Carmagnola, Manzoni dichiarava di avere
riservato, mediante il Coro, un cantuccio all'autore, per un momento di
riflessione. Forse, nella nostra civiltà letteraria manca proprio la
capacità di ascoltare e incarnare in un coro le voci provenienti
dall'interno della società. Nel teatro di questo secolo si possono citare solo
due eccezioni: la banda di straccioni e mendicanti della brechtiana Opera
da tre soldi e le povere donne di Canterbury in Assassinio
nella Cattedrale, un dramma speciale e classicistico di T. S.
Eliot.[20]"
.
Bologna 29 dicembre 2020
giovanni ghiselli
[1]Estetica, p.1429.
[2] F. Nietzsche, La nascita della
tragedia, capitolo 7 pp. 50 - 51
[3] Corso di letteratura drammatica,
lezione III.
[4] A. Manzoni, Il conte di
Carmagnola, Prefazione.
[5] F. Nietzsche, La nascita della
tragedia, p. 51.
[6] F. Nietzsche, La nascita della
tragedia, p. 52.
[7]La nascita della tragedia ,
capitolo 7, pp. 52 sgg.
[8] G. D'Annunzio, Faville del
maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[9] Paul e Virginie (del
1788), p, 135.
[10] T. Mann, La morte a Venezia
(del 1913) p. 139.
[11] Con Euripide "Al posto della
consolazione metafisica è subentrato il deus ex machina ... ossia
il dio delle macchine e dei crogiuoli" (La nascita della
tragedia , p. 117 e p. 118.)
[12] "The time is out of joint"
(Amleto, I, 5)., il tempo si è disarticolato, dice il principe di
Danimarca dopo avere visto e sentito lo spettro del padre che chiede vendetta
del turpe e snaturato assassinio Così pure il mondo del Thyestes di
Seneca è uscito dai cardini. Il retrocedere del sole suggerisce queste parole
al quarto coro atterrito:"Nos e tanto visi populo/digni, premeret quos
everso/cardine mundus;/in nos aetas ultima venit./O nos dura sorte creatos,/seu
perdidimus solem miseri,/sive expulimus!" (vv. 876 - 882), noi tra
tanta gente siamo sembrati degni di essere schiacciati dal mondo dopo il
rovescio dei cardini; l'ultima era è arrivata su di noi. O creati con dura
sorte, sia che abbiamo perduto il sole, disgraziati, sia che l'abbiamo cacciato
(ndr).
[13] La nascita della tragedia,
capitolo 7 p. 55.
[14] La nascita della tragedia, capitolo
7 p. 56.
[15]La nascita della tragedia ,
capitolo 14, p. 96.
[16]Cfr. Poetica 1456a già citato.
[17]La nascita della tragedia , pp.
96 - 97.
[18]Euripide e i
suoi tempi , Laterza, 1932.
[19] Giovanni Macchia, L’angelo
della notte, p. 166.
[20] U. Albini, Nel nome di
Dioniso, p. 73.
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