sabato 26 dicembre 2020

6 incontri sulla tragedia greca. Terzo assaggio. Due riflessioni di Giacomo Leopardi sulla letteratura drammatica

Leopardi: Annotazione bibliografica autografa su carta
Libreria Antiquaria Gonnelli


Un pensiero confuso di Leopardi sulla funzione educativa della tragedia: quandoquidem dormitat et bonus poeta.

Leopardi: la tragedia deve suscitare odio per il delitto e per i delinquenti. Lo fa con maggiore efficacia se il crimine e il criminale restano impuniti.

 

Sentiamo una precisazione: “Il fine dei drammi non è, e non dev’ essere, d’insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano di peccare. Meglio sarebbe una predica dell’inferno o del purgatorio; e meglio ancora una lettura del codice penale che si facesse sulla scena. Il loro scopo si è d’ispirare odio verso il delitto. Questo è ciò che le leggi non possono (…) Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta morale de’ felici e degl’infelici qual essa è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l’odio e il disprezzo originato dal dramma verso i malvagi benché felici e viceversa”[1].

 

Il delinquente e il delitto suscitano maggiore ira nello spettatore se rimangono impuniti. Tale “tristo fine” è più educativo del “lieto fine” con la punizione del criminale che in questo caso non suscita l’ira degli spettatori. Ho dovuto tradurre il pensiero poco chiaro di Leopardi, espresso confusamente, pur se profondo nella sostanza.

 “Mariolo” il Recanatese, “ma profondo”.

 

Segue un esempio:

 “Quanto all’effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può rimanere in chi l’ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito?[2] Quella punizione che l’uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l’ha preoccupata[3] il poeta: questi ha fatto tutto; l’uditore non ha a far più nulla, e nulla fa: Dunque l’uditore parte dal dramma senza né odio né ira né altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto (...)

Si rappresentò in Bologna pochi anni fa l’Agamennone dell’Alfieri. Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l’altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all’attrice che l’ammazzasse. Ma come in quella tragedia Egisto riesce fortunato e gl’innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che possono le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di tristo fine[4].

Perché promettendo gli attori che la sera vegnente avrebbero rappresentato l’Oreste pur d’Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di Egisto, la gente uscì dal teatro fremendo perché il delitto fosse rimasto ancora impunito, e dicendo che per qualunque prezzo erano risoluti l’indomani di trovarsi a veder la pena di questo scellerato. E l’altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio verso un ribaldo di tremila anni addietro, potuto ispirare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto così vivo, potuto da lei produrre o lasciare; per l’una e per l’altra parte si può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco utili o dilettevoli (…) si sarà potuto notare da qualunque mediocre osservatore se il dramma di tristo, o quello di lieto fine, sia da preferire e qual de’ due abbia maggior forza negli animi , e sia d’effetto più teatrale e poetico, e più morale e utile. - Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi ne’ quali l’infelicità de’ buoni o degli immeritevoli, non viene da’ cattivi, né da altri vizi o colpe, ma dal fato o da circostanze, quali sono l’ Edipo re di Sofocle, la Sofonisba d’Alfieri, e molte tragedie di varie età e lingue…[5]  ”.

 

Più avanti Leopardi svaluta il dramma. Questa riflessione è errata in modo stupefacente.

Il Recanatese sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella  epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua (…)  Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote" (Zibaldone, 4235-4236).

Ancora: “Essa[6] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. Suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. Ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. dal poeta (…) Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (4357). 

E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).

 

La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.

Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica.

Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. gr. fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. ec. (22. Sett. 1828)”[7].

Sulla poesia lirica in una pagina precedente si legge: “Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilm. corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram. Che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento” (Zibaldone, 1856).

 

Eppure Leopardi sa che la grande arte ha la prospettiva di rivolgersi a un popolo intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può mai esser quello che fa il popolo, e per piacere ai critici si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[8].


Bologna 26 dicembre 2020, ore 10, 10

giovanni ghiselli

 

 


[1] Zibaldone, pp. 3448-3449 e p. 3451.

[2] E’ questo il lieto fine per lo spettatore, non per il malvagio il quale viene odiato di più quando se la cava , un “tristo fine” questo  che suscita appunto maggiore odio verso il male. Pensiero espresso con scarsa chiarezza da Leopardi che talora, anche lui, dormitat. ndr

[3] Predisposta ndr.

[4] Quando cioè il delinquente resta impunito. In tal caso il dramma suscita maggiore odio verso il criminale e il crimine.

[5] Zibaldone, pp. 3457-3460.

[6] La poesia drammatica.

[7] Zibaldone, p. 4389.

[8] Leopardi, Zibaldone, 145-146.

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