martedì 29 dicembre 2020

Debrecen 1979. 64. Judith

Willy Stöwer, Naufragio del RMS Titanic
Continuavo a osservare la sala della festa finale, in particolare quei pupazzi da farsa fliacica che seguitavano a ingozzarsi, ruttare e gridare con bocca sgangherata. Ero dispiaciuto per loro che significavano la rovina dei tempi ma ero contento di non essere finito nel naufragio generale dell’Europa quale vedevo rappresentata in quel raduno di giovani provenienti da quasi tutte le università del nostro continente. Allora non avevo capito che difficilmente ci si salva da soli ed è quasi impossibile salvarsi in due.

 Quando nell’aria manca l’amore, questo non c’è per nessuno.

Si bene calculum ponas, naufragium ubique est[1]”, se fai bene i conti, il naufragio è dappertutto.

Mi confortai non poco parlando con una ragazza austriaca Judith, bruna, forse ebrea, intelligente, carina, educata.

Qualche sera prima era capitata con un ragazzo, Peter, il suo compagno,

nella sala dove studiavo e mi avevano chiesto che cosa stessi leggendo.

Il libro e la lettura sono segni di riconoscimento, quasi le uniformi della nostra cittadinanza di studiosi. Noi non siamo borghesi né proletari né ariani, né semiti: siamo appunto studiosi. Magari anche sportivi.

Stavo rivedendo la mia traduzione dell’Antigone di Sofocle che volevo pubblicare. Si erano scusati, ma li avevo invitati a restare se volevano sentire qualche parola sulla ragazza più sororale di tutte, quella che poi nell’Edipo a Colono sarebbe diventata filiale con il padre cieco quanto Cordelia con il lunatico, pazzo re Lear. Mostrarono un forte interesse. Mi piacquero subito. Anche lui era uno gentile. Gente del mio stampo, pensai. Infatti poi mi avevano parlato di Musil, non genericamente come quelli che conoscono solo i titoli e credono sia sufficiente, anzi già una cosa grande.

Quella sera finale dunque, avendomi visto solo, mi invitarono al loro tavolo. Ho passato lunghi periodi della mia vita da solo, dopo la morte delle zie e della mamma ho vissuto nella solitudine completa tutte le feste più solenni e comandate siccome le mie amanti sposate in quei gioni decretavano l’embargo mio e la propria clausura con il marito. Quando andava bene, si rifugiavano nel garage per farmi una telefonata, oppure nel cesso. Ubi maior minor con quel che poscia è detto, appunto.

Visti tali matrimoni non mi sono lamentato della solitudine natalizia e degli altri monachesimi di tali feste tutt’altro che coribantiche, anzi me ne sono compiaciuto. Però la visita e l’invito di quei due ragazzi mi fece piacere. La ragazza mi piaceva assai.

Disse che a quella festa non sapeva che cosa fare: l’allegria dei più era forzata e il baccano impediva di dialogare. Noi due per falo, dovevamo alzare la voce. Judith parlava con precisione e ascoltava con attenzione. Dava maggiore importanza a  quanto sentiva dire da me che a quanto mi diceva lei, come fanno le persone intelligenti, fini, educate.

A un certo punto Peter si alzò per salutare i suoi compagni viennesi

 

giovanni ghiselli

  



[1] Satyricon, 115.

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