NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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sabato 26 dicembre 2020

6 incontri sulla tragedia greca. Sesto assaggio. Le rappresentazioni teatrali

pittura rupestre rapprresentante riti di fertilità
Dioniso

I riti della fertilità dicevamo. Questi celebrano la nascita, la vita, la morte e la resurrezione. Dioniso impersona tutte le fasi dell’alterna vicenda: “ Dioniso è un dio universale - dio della vita, di ogni rinascita primaverile in piante, animali e uomini, ma anche dio dei morti. Dio gentile, delizioso, piacevole e sorridente; dio terribile, distruttore, feroce massacratore. Dio buono e dio cattivo. Ogni dio antico ha in germe queste due facce (…) Dioniso è entrambe le cose al massimo grado: è delizia e terrore (…) In Dioniso si manifesta più chiaramente che in tutte le altre divinità ciò che per i greci - e non solo per i greci - è il tratto principale degli dèi: il loro essere inquietanti, il non saper mai come reagiranno, il non sapere che cosa faranno. Per questo Esiodo parla di “inquietante casta degli dèi”[1].

 

“Seppure possa sembrare affascinante, la ricerca delle origini (…) non è poi problema tanto rilevante (…) non sono le origini, ma la tragedia quale si è storicamente configurata a condizionare la nostra sensibilità teatrale”[2].

 

Le rappresentazioni ad Atene

 Le rappresentazioni ad Atene avvenivano principalmente durante le Grandi Dionisie, le quali, istituite tra il 535 e il 533 da Pisistrato, si tenevano all'inizio della primavera, tra marzo e aprile, quando, per una settimana circa, si svolgevano processioni, cortei e riti in onore di Bacco, si cantavano a gara ditirambi da parte di cori maschili e femminili, si facevano banchetti e scatenate baldorie che incrementavano le nascite, e finalmente si assisteva agli agoni tragici e comici: per tre giorni, tre drammaturghi scelti dall’arconte eponimo tra i concorrenti presentavano tre tragedie nuove e un dramma satiresco, mentre il quarto giorno era quello delle cinque commedie, una per ciascuno degli autori ammessi.

“ Almeno nell’età di Eschilo, Sofocle ed Euripide, il dramma satiresco concludeva, a mo’ di appendice alle tragedie, la tetralogia che ciascun tragediografo portava in scena alle Grandi Dionisie.

Il dramma satiresco proponeva al pubblico un episodio del mito, ma riservando ad esso un trattamento in chiave burlesca. Si badi bene però: nulla che lo assimilasse alla commedia. Il dramma satiresco era piuttosto un “sottogenere” del più nobile genere tragico, come indicano i molteplici e sostanziali punti di contatto tra le due forme di spettacolo: medesimo autore, medesima occasione della performance, medesimi attori e medesimi coreuti, medesima morfologia strutturale (articolazione in prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo), introduzione sulla scena dei medesimi personaggi. Questi ultimi sono ovviamente gli eroi del mito; e tuttavia l’atmosfera in cui sono immersi, pur ricalcando il soggetto scenico le linee del racconto tradizionale, è assolutamente surreale: ché accanto ad essi imperversa regolarmente - come elemento imprescindibile del genere - un coro di satiri guidati dal loro padre-tutore, il vecchio Sileno. Esseri semiferini, cinti di una pelle di cuoio, con fallo eretto, coda e orecchie equine, maschera con barba e naso camuso (…) li vediamo all’opera come araldi, atleti, cuochi, nutrici di Dioniso, marinai, carpentieri, pastori ecc. Incapaci e vili, rozzi e brutali per un verso, ingenui e puerili per un altro, totalmente estranei alle istituzioni e alle convenzioni della polis e del consorzio civile, essi si trovano a cooperare (spesso contro un mostro o un “nemico” di cui sono schiavi e da cui dovranno essere liberati) con personaggi di forte tempra e di fiera dignità eroica, determinando con i loro facili entusiasmi e la loro imperizia, ostacoli, sorprese, situazioni di imprevista comicità. La magra messe di testi di cui disponiamo-appena un dramma completo, il Ciclope di Euripide, circa metà dei Cercatori di orme di Sofocle e poi frammenti più o meno estesi, tra cui si distinguono per ampiezza e vis inventiva soprattutto quelli eschilei-induce a credere che, a paragone delle tragedie, il dramma satiresco presentasse di norma un intreccio estremamente semplificato, il quale non aveva altra funzione se non quella di creare un pretesto al gioco lieve e scanzonato di Sileno e del coro: di qui anche un’estensione che, in media, doveva essere comparativamente molto più breve di quella di una tragedia. Come a compensare l’esilità della trama e lo scarso spessore psicologico dei protagonisti, un rilievo proporzionalmente assai maggiore era assegnato ad altri elementi di più facile presa spettacolare: ad esempio la danza, con frequenti sezioni liriche strofiche che dovevano assecondare l’esecuzione di movimenti orchestici particolarmente vivaci; o una gestualità fortemente connotata sotto il profilo mimico e dunque ben lontana dalla rigida compostezza cui era vincolata la scena tragica; o il ricorso al teratodes (il “meraviglioso”), con l’introduzione di creature mostruose, metamorfosi, camuffamenti animaleschi, apparizioni inattese”[3].  

 

Una giuria di dieci membri estratti a sorte, uno per tribù, attribuiva i premi.

“Al termine delle rappresentazioni ogni giurato scriveva le proprie preferenze su una tavoletta; tra le dieci tavolette raccolte ne venivano sorteggiate cinque, ed era sulla base di queste cinque che veniva compilata la classifica finale. Ci si è chiesti se i giudici fossero davvero ligi al giuramento di imparzialità che erano obbligati a prestare. Il pubblico che sedeva a teatro partecipava agli spettacoli con grande vivacità, ed è naturale supporre che le rumorose reazioni di consenso o di riprovazione con cui accompagnava la rappresentazione delle opere incidessero sulle scelte dei giurati (…) Platone-ma siamo già nel IV secolo inoltrato-protesta energicamente contro i condizionamenti imposti dalle claques (Leg. 2, 659 a-b)” [4].

Leggiamone solo alcune parole: “A teatro il vero giudice non deve imparare a giudicare spaventato dallo strepito dei più e dalla propria ignoranza, ” (Leggi, 659a)

“Altrove, alludendo ancora ai fischi, agli applausi e alle urla scomposte del pubblico, il filosofo parla di “teatrocrazia” (Leg. 3, 700c)”[5].

“Ad episodi di corruzione accennano gli oratori del IV secolo, ma in generale non abbiamo motivo di dubitare dell’onestà dei giurati. Allo stesso modo occorre riconoscere alle giurie stesse ( …) un’apprezzabile capacità di giudizio estetico. Lo prova il fatto che sia Eschilo che Sofocle vinsero in più della metà degli agoni cui parteciparono; per Euripide il discorso è più complesso: lo scarso numero di vittorie riportate da un lato riflette una reale difficoltà del pubblico ateniese ad accettare le novità ideologiche, se non anche drammaturgiche, del suo teatro, e dall’altro si spiega con la circostanza tutt’altro che irrilevante che sin dagli inizi della sua carriera e fino alla morte egli si trovò a rivaleggiare con un concorrente della statura di Sofocle. Non manca peraltro qualche caso in cui il verdetto dei giudici ci appare opinabile se non addirittura scandaloso: nelle Dionisie in cui fu presentato l’Edipo re, Sofocle giunse solo secondo, essendogli stato preferito un autore di non eccelsa levatura quale Filocle. Eppure l’Edipo re- non solo a giudizio della critica moderna, ma già nella valutazione di un autorevole e indiscusso conoscitore della tragedia greca come Aristotele-è un capolavoro di rilievo assoluto. Restano oscure le ragioni della scelta dei giurati. Si può solo supporre-e ciò richiama la nostra attenzione sull’ottica parziale con cui guardiamo al teatro antico-che essi abbiano tenuto conto non solo dell’intreccio, ma anche della musica, della danza, della recitazione, dei costumi, degli effetti visivi, e che il loro voto abbia riguardato, come del resto era prassi negli agoni, non le singole tragedie, ma le tetralogie nel loro insieme”[6].

Erano meno importanti i festival invernali: quello delle Lenee (gennaio-febbraio), dedicato soprattutto alla commedia, e quello delle Dionisie rurali (dicembre-gennaio), ma gli appassionati non se li lasciavano sfuggire, e, come se avessero dato a nolo le orecchie (w{sper de; ajpomemisqwkovte~ ta; w\ta), li denigra Platone, “corrono in giro ad ascoltare tutti i cori senza mancare alle Dionisie, né a quelle urbane, né alle rurali" (Repubblica , 475d).

 

Platone nella stessa Repubblica biasima Omero ed Eschilo poiché attribuiscono menzogne agli dèi mentre il divino è pavnth/ ajyeudev~ (382e), assolutamente incapace di mentire. Viene ricordato il sogno ingannevole inviato da Zeus ad Agamennone nel secondo canto dell’Iliade e un frammento di Eschilo dove Teti biasima l’inganno di Apollo che aveva predetto felicità alle sue nozze poi le aveva ucciso il figliolo. Dunque sentendo cose simili sugli dèi: “calepanou`mevn te kai; coro;n ouj dwvsomen” (383c), noi ci sdegneremo e non concederemo un coro.  

 

Le Lenee, cioè la festa di Dioniso Leneo (da lh`nai =  “menadi” piuttosto che da lhnov~ = “torchio”, come si riteneva un tempo, allorché si collegava la festa ai riti della vendemmia) si celebravano nel mese di Gamelione (gennaio-febbraio) e, dato il periodo poco propizio alla navigazione, avevano una dimensione prettamente locale: vi  partecipavano soltanto, o quasi, gli abitanti dell’Attica. “L’agone è quello lenaico, e siamo tra noi” fa dire Aristofane a Diceopoli, protagonista degli Acarnesi, rappresentati appunto alle Lenee, per giustificare le critiche che intende muovere al demagogo Cleone (vv. 504 ss.): assenti gli stranieri e gli alleati, il poeta comico si sente legittimato a lavare i panni sporchi in famiglia (…) gli agoni lenaici prevedevano all’inizio esclusivamente competizioni tra poeti comici. Le tragedie vi furono introdotte solo alcuni anni più tardi, e in scala ridotta rispetto a quanto avveniva alle Dionisie: al concorso erano ammessi solo due tragediografi , ciascuno con due tragedie, senza dramma satiresco. I grandi tragici del V secolo vi fecero rappresentare di rado i loro drammi (…) Le Dionisie rurali erano invece feste organizzate dai demi a dicembre, nel mese di Poseidone, ma non dappertutto nella medesima data: gli appassionati di teatro ne approfittavano , come ci riferisce Patone (Resp. 5, 475d), per assistere in più demi a spettacoli diversi. La celebrazione del culto di Dioniso qui aveva il suo momento più importante nella falloforia, una processione con la quale si chiedeva al dio la fertilità dei campi”[7].

 

Si tratta comunque di arte per il popolo e di contenuto fondamentalmente religioso. "Il dramma perfetto è la messa", ebbe infatti a scrivere Eliot, non ricordo dove.

Posso invece citare Richard Wagner : “L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un atto religioso vero e proprio; e in quest’atto, paragonato alla semplicità delle cerimonie religiose primitive, già s’affacciava il desiderio di rappresentare collettivamente e deliberatamente il ricordo comune (…) La tragedia fu dunque il trasformarsi di una cerimonia religiosa in opera d’arte[8].

Quindi Thomas Mann: “io credo che l’aspirazione segreta, l’estrema ambizione di ogni teatro sia il rito, da cui esso è  del resto derivato presso pagani e cristiani. Arte teatrale è già per se stessa arte barocca, cattolicesimo, Chiesa: e un artista che, come Wagner, era abituato a maneggiare simboli e ad innalzare ostensori, doveva finire per sentirsi  fratello del sacerdote, sacerdote egli stesso”[9].

 

Aggiungo  Jacob Burckhardt: “ il dramma greco non era sorto come divertimento e passatempo (…) bensì quale parte di un importantissimo culto della polis. Non era una risorsa, e neppure uno svago per una élite di “intellettuali” e di annoiati, ma un altissimo interesse di tutta la cittadinanza in festa”[10].

 

 “Il Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui giudizio si sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una festa religiosa dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso pubblico cui Pericle parlava nelle assemblee popolari (…) Non scriveva per un manipolo di raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era un uomo che parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni, le sue credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli loro, anche se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto (…) questo suo messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri (…)Se mai arte severa e grande appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu la tragedia attica”[11].

 

Qualche cosa di simile scrive T. S. Eliot a proposito del teatro elisabettiano: “La struttura fornita ai drammaturghi elisabettiani non fu semplicemente il blank verse e il dramma in cinque atti e il palcoscenico elisabettiano; non fu semplicemente la trama, poiché i poeti incorporarono, rimodellarono, adattarono o inventarono, come le circostanze suggerivano. Fu anche l’u{lh  per metà già formata, il “tono dell’epoca” (espressione insoddisfacente), una preparazione, un’abitudine da parte del pubblico a reagire a certi particolari stimoli”[12].  

 

 Nello Zibaldone Leopardi entra in contraddizione con quanto scritto a p. 1856 citata sopra

“le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime per la ragione (2362) contraria. Che vuol dir ciò? Non è dunque la sola verità dell’imitazione , né la sola bellezza e dei soggetti e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente”.  

 

 

Sentiamo  anche Ortega y Gasset: “Ed è interessante ricordare (…) che la pagliacciata, combinata a un rito religioso (…) è in tutti i popoli all’origine del teatro”[13].

 

All'inizio nel dramma dovette essere di gran lunga preponderante la parte corale[14], poi, da Eschilo in avanti, questa si restrinse. Aristotele ricorda che Eschilo portò il numero degli attori da uno a due, ridusse la parte del coro, e rese protagonista la parola (kai; ta; tou' corou' hjlavttwse kai; to;n lovgon prwtagwnistei'n pareskeuvasen, Poetica, 1449a, 15-18 ). 

Infatti il dramma greco rispetto al melodramma moderno è logocentrico.

Con lovgo~ intendo più la parola parlata che quella scritta: “Il mondo greco era anzitutto il mondo della parola parlata”[15].

 

26 dicembre 2020, ore 19, 38. giovanni ghiselli

p. s

 

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[1] Ortega Y Gasset, Idea del teatro, p. 88.  Ortega rimanda al v. 44 della Teogonia: “qew'n gevno~ aijdoi'on” che io tradurrei piuttosto “stirpe veneranda degli dèi.  

[2] Lanza, Dimenticare i Greci, in I Greci Storia Cultura Arte Società, vol. 3, I Greci oltre la Grecia, p. 1455, Einaudi, Torino, 2001.

[3] M. Di Marco, La tragedia greca, p. 26.

[4] Di Marco, Op. cit., p. 41

[5] Di Marco, Op. cit., p. 41

[6] Di Marco, Op. cit., pp. 41-42.

[7] Di Marco, Op. cit., p. 43

[8] R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire  (del 1849), p. 252.

[9] Dolore e grandezza di Wagner in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Meridiani Mondatori, p. 1023

[10] J. Burckhardt, Storia della civiltà greca (pubblicato nel 1898 da lezioni tenute tra il 1872 e il 1875), 1, p. 1139.

[11] V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, p. 19.

[12] T. S. Eliot, Il bosco sacro, p. 85.

[13] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p.  55.

[14] “Il coro originariamente è tutto”, J. Burckhardt, Storia della civiltà greca, 1, p. 1140.

[15] M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 18.

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