Tornai all’aria aperta. Il sole non la scaldava più: l’estate anche questa volta era finita. L’autunno arrivava da oriente, dalle grandi distese mietute e svuotate come una donna che abbia già partorito, o abortito. La stagione che offusca e decolora soffiava sulle corolle dei fiori sgualciti e sbiaditi, sulle foglie avvizzite, sull’erba schiacciata, come un seduttore malvagio inocula pena nell’anima di una donna amabile e la corrompe, la guasta, la fa inaridire.
Nel piccolo lago sormontato dal ponte di legno le rane non cantavano più.
Oppure erano troppo lontane e non le sentivo. Eppure non ero infelice. Autunno questa volta per me significava tornare alla vita che mi piaceva.
La morte dell’estate era rinascita. All’espresso promesso e mai arrivato non volevo pensare. Non andavo in camera a leggere, né alla mensa. Mi dirigevo verso la piscina per ripassare l’abbronzatura: volevo evitare lo scolorimento che vedevo dappertutto. Dovevo rimanere al massimo e all’ottimo livello della mia forma. Quel sole indebolito bastava per un ripasso. La piscina era quasi vuota. Nella vasca delle gare di nuoto non c’era nessuno. Potevo nuotare impegnandomi per mantenere il tono migliore. Mi applicai la maschera che avevo lasciato nella cabina degli studenti borsisti: mi è necessaria per non perdere le lenti a contatto. Nuotai a lungo nonostante fossi digiuno dalla sera prima, a parte i caffè. Mi dava forza il pensiero che non fosse tutto perduto con Ifigenia. Poteva spingermi ancora verso le cose egregie. L’avrei elevata con me. Ora, lettore, ti anticipo che l’anno successivo sarei tornato in quella piscina con lei, e un uomo, che stava seduto sull’orlo della vasca dove di nuovo notavo, disse: “good mask”, buona maschera.
Ifigenia credette che avesse esclamato “buon maschio!”. Dopo altri dodici mesi difficili, ancora qualche cosa di buono rimaneva tra noi.
giovanni ghiselli
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