Ad Atene i drammi venivano rappresentati nel teatro di Dioniso situato sulle pendici meridionali dell'acropoli.
In origine era di legno, poi subì diversi sviluppi e cambiamenti, fino all'epoca dell'impero romano, quando vi si svolgevano combattimenti di gladiatori e forse anche naumachie. Meglio conservato e di struttura più unitaria è quello di Epidauro, creazione[1] di un singolo architetto: Policleto il giovane.
In ogni modo il teatro[2] era senza tetto e constava di tre parti: la prima era la càvea (koi'lon), la gradinata dove sedeva il pubblico; la seconda l'orchestra circolare, il luogo centrale sul quale danzava il coro, dove sorgeva l'altare di Dioniso e si trovava una piattaforma (logei'on ), forse leggermente elevata: questa era il palcoscenico sul quale recitavano gli attori e stava nella parte dell'orchestra più lontana dagli spettatori; infine, di seguito, si trovava la scena, in origine una tenda (skhnhv ) che consentiva ai personaggi di cambiarsi il costume senza essere visti dal pubblico, poi divenne l'edificio di sfondo, un palazzo reale, un tempio, con una o più entrate, e due ali sporgenti (paraskhvnia), oppure una caverna. L'attore, abbiamo detto, recitava davanti alla scena, ma in certi casi appariva sul suo culmine o, impersonando un dio, su un un tetto mobile (qeologei'on), o anche sospeso in aria da una specie di gru (mhcanhv), e in tal caso era il deus ex machina.
“Dove agivano gli attori? Era riservato loro uno spazio distinto da quello del coro? Una testimonianza di Vitruvio (V, 7, 2) riferisce che essi recitavano su di un logheion, una scena rialzata di alcuni metri rispetto alla sottostante orchestra ove stazionava il coro. La creazione di questa struttura, con una conseguente rigida spartizione degli spazi, è un prodotto dell’età ellenistica: essa interessò certamente anche il teatro di Dioniso, ma non prima del III sec.a.C.
Le tragedie che noi leggiamo ci documentano invece, in più di un caso, una stretta interazione tra coro e attori: le Supplici di Eschilo ci mostrano l’araldo egizio che aggredisce le Danaidi e tenta di trascinarle via con la forza da Argo; e nell’Edipo a Colono il coro cerca di contrastare fisicamente il tentativo di Creonte di rapire Antigone. Le stesse commedie di Aristofane, del resto, e ancor più il dramma satiresco-che, non dimentichiamolo, venivano rappresentati nello stesso teatro di Dioniso-presuppongono la prossimità di attori e coro. E’ evidente dunque che nel teatro del V sec. a. C. non poteva esservi una netta separazione tra orchestra e logheion, o almeno non poteva esservi un proscenio così alto come quello di cui parla Vitruvio (…) L’ipotesi che riscuote maggiori consensi è che nel V secolo un logheion rialzato esistesse realmente, ma che la sua altezza fosse tale da consentire facilmente, qualora la dinamica scenica lo prevedesse, un avvicinamento e quasi un contatto tra coreuti e attori”[3].
“Tra le convenzioni del teatro greci rientra anche l’uso di macchine (…) Il più celebre di questi strumenti è senza dubbio la macchina del volo (mhcanhv o anche gevrano~= “gru”): un congegno fissato al suolo su un basamento al margine dell’orchestra , dotato di un lungo braccio mobile azionato per mezzo di funi e carrucole, alla cui estremità doveva essere agganciata una bardatura che serviva ad imbragare l’attore destinato ad essere sollevato in alto. Della mhcanhv si fa uso nel Prometeo[4] , ove Oceano compare in groppa ad un fantastico essere alato. Della mechané Euripide si avvalse spesso per l’apparizione improvvisa e miracolosa di una divinità che interviene dall’alto a risolvere un conflitto drammatico altrimenti inestricabile. Una soluzione certamente sorprendente e di facile presa spettacolare, come dimostra il fatto che l’espressione qeo;~ ajpo; th`~ mhcanh`~ (=deus ex machina) divenne proverbiale: la prima attestazione è in Platone (Crat. 425d; Clitoph. 407a), e con ironia il comico Antifane[5] osserva che ai poeti tragici, quando essi non sanno più come sviluppare l’azione, basta alzare la gru così come si alza un dito, ed ecco che ogni loro problema è risolto (fr. 189 K.-A)”[6].
Un'altra macchina, utile a mostrare simbolicamente scene d'interno o a trasportare personaggi era l' ejkkuvklhma , un carrello basso su ruote, spinto fuori attraverso l'apertura centrale della skhnhv .
L’insieme , tornando ad Aristotele, fu resa più ricca e varia da Sofocle che introdusse la scenografia e il terzo attore (Poetica , 1449a, 19).
Gli attori erano tutti maschi; ciascuno usava una maschera (provswpon, cfr. lat persona[7]) e poteva interpretare più parti in una stessa tragedia.
“Il medesimo attore interpretava nelle Baccanti i personaggi di Penteo e di Agave, con un sinistro effetto di ironia tragica, se si pensa al finale del dramma e alla possibilità che nella voce della madre che celebra il suo folle trionfo gli spettatori riconoscessero, al di là delle variazioni messe in atto dall’interprete, la medesima voce del figlio da lei dilaniato (…) nelle Baccanti un attore impersonava Dioniso e Tiresia, un altro Penteo e Agave, un altro ancora Cadmo, il servo e il primo Messaggero, mentre resta dubbia l’attribuzione del ruolo del secondo Messaggero ”[8].
giovanni ghiselli
[1] 350 a. C. ca.
[2] Etimologicamente è “il luogo da dove si guarda”.
[3] Di Marco, Op. cit., pp. 57-58
[4] Il Prometeo incatenato (molto probabilmente) di Eschilo: ne parleremo estesamente più avanti .Ndr.
[5] Autore della cosiddetta “commedia di mezzo” che presentava spesso parodie mitologiche, utilizzando spesso episodi di tragedia di Euripide, come testimoniano alcuni titoli di Antifane: Medea, Baccanti, Elena. Ndr.
[6] Di Marco, Op. cit., p. 62.
[7] “Un’opinione accreditata e diffusa vuole inoltre che il nome latino di “maschera” (persona) non sia che il greco provswpon passato ai Romani attraverso l’etrusco (donde la diversità delle due forme)” . Prefazione di Cesare Questa a Plauto Anfitrione, p. 14.
[8] Di Marco, Op. cit p. 85 e p. 88
Nessun commento:
Posta un commento