domenica 27 dicembre 2020

Debrecen 1979. 62. La complessità delle favole amorose

 

Tali pensieri lieti mi aiutavano a passare il tempo mentre aspettavo il contatto vocale che mi avrebbe consentito una prima verifica.

All’ora della chiusura però la comunicazione non era giunta, sicché dovetti annullare la chiamata. Ne avrei fatta un’altra la mattina seguente. Uscii dall’ufficio postale che era notte: il volgere delle settimane aveva già sottratto quarti d’ora di luce alle giornate di giugno. Aspettavo il tram numero uno sotto l’insegna luminosa e circolare Hotel Aranybika. Mi tornò in mente la sera antica quando lessi quelle lettere per la prima volta, nel luglio del 1966. Allora mi sentivo completamente solo nel mondo. Mi accompagnava la pena con la morte e il diavolo forse. Due anni prima avevo smarrito la mia identità di studioso e sportivo bravo e non riuscivo a ritrovarla né a trovarne un’altra. Per giunta mi sentivo sperduto in quel paese dall’idioma incomprensibile, in quella landa all’estremo confine del mondo civile quale credevo che fosse.

Eppure speravo che qualche cosa di buono potesse accadermi ancora siccome ero sì infelice e mi sentivo brutto assai, ma non ero cattivo del tutto.

In qualche maniera pre-sentivo che in quella terra avrei fatto gli incontri della salvezza. L’ amicizia di Fulvio e la trilogia amorosa con le finlandesi.

Tre storie iniziate con una ricerca, proseguite con un approccio, incoronate dalla felicità che me le fa ricordare come le più belle della mia vita e me le fa raccontare, ma poi una fine non lieta: ciascuna dunque comprensiva di peripezia, riconoscimento, catastrofe insomma, al pari di un dramma dalla trama complessa.

Nel tempo della terza, quello di Päivi, non avevo ancora compiuto i trenta anni e non ero abbastanza maturo per comprendere i movimenti profondi del divenire dell’anima umana. Nel 79 avevo capito qualche cosa di più e avevo rinunciato a mettere schemi sulle persone, sulla realtà multiforme e cangiante, a ingabbiare la mia stessa rapida vita mortale in categorie lapidarie. L’unica pietra sicura era quella del funus. Anche quella poi solo relativamente sicura. Senza figli come ero, come probabilmente sarei rimasto, le mie ossa potevano rimanere confuse e non distinte da un sasso con su scritto il mio nome. Non me ne importava nulla nemmeno da vivo.

Oramai sapevo che è il tempo a svelare gli enigmi, a rivelare la donna giusta, a smascherare il farabutto callido e astuto.

Comunque ero contento di tornare in Italia. Quell’anno non dovevo dire addio per sempre all’amore che saliva sul treno per sparire nel gelo e nel buio dell’inverno iperboreo.

Anzi, nell’agosto del 1979 stavo per tornare in una città che mi piaceva, dove avevo un ruolo già soddisfacente e che poteva migliorare ancora, dove avrei trovato una donna giovane e bella assai pronta a fare l’amore con me diverse volte al dì, per non dire delle notti in vacanza, e pure qualche amico già messo alla prova, temprato e garantito autentico, oramai, dal volgersi delle stagioni.

 

giovanni ghiselli    

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