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Torniamo alla Poetica di
Aristotele con un altro argomento. Degne di nota sono le considerazioni sul
linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh;n ei\nai” (1458a, 18 ). Pregio del
linguaggio è essere chiaro e non pedestre.
Il poeta può e deve variare rispetto
all’usuale.
Il linguaggio si scosta
dall’ordinario quando usa espressioni peregrine: “xeniko;n de;
levgw glw'ttan kai; metafora;n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to;
kuvrion” (1458a, 22
), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni
forma contraria all’usuale stabilito. Glossa è la locuzione non comune, quella
di cui non tutti fanno uso (1457b, 4). Metafora è il trasferimento del nome da
una cosa a un’altra: “metafora; dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7). Allungata (ejpektetamevnon,
1457, 35) è la
parola adoperata con una vocale più lunga dell’ordinario o con l’aggiunta di
una sillaba; accorciata (ajfh/rhmevnon) quando si toglie qualche cosa (1458a, 1). Non si
devono impiegare tutti insieme questi elementi inusuali, altrimenti si produce
l’enigma o il barbarismo. Dalle glosse si producono i barbarismi, dalle metafore
l’enigma, la cui caratteristica è combinare insieme l’impossibile dicendo cose
vere. (1458 a, 26)[1]. Per avere insieme elevatezza e chiarezza
dunque bisogna fare in un certo modo una mescolanza di queste forme: “dei' a[ra
kekra'sqai pw~ touvtoi~” (1458a, 31). Arifrade canzonava[2] i tragediografi poiché fanno uso di
espressioni che nessuno impiega parlando, come le anastrofi (oi|on to; dwmavtwn
a[po ajlla; mh; ajpo; dwmavtwn, 1458a, 33, come per esempio da
casa via e non via da casa), e ignorava che sono proprio le espressioni
inusuali a produrre nel linguaggio to; mh; ijdiwtikovn (1459a, 3) il non ordinario.
E’dunque molto importante
sapere usare queste forme di abbellimento, e soprattutto le metafore.
Questo fatto creativo non può essere
preso in prestito da altri: “ eujfui?a~ te shmei'ovn ejsti: to;
ga;r eu\ metafevrein to; to; o{moion qewrei'n ejstin” (1459a, 6 - 7), ed è segno di talento: infatti trovare buone metafore significa osservare
ciò che è somigliante[3].
“E’ in questo senso che un poeta
dice: “La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora”. La
metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai
lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che
produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e
l’isolamento delle cose”[4].
“Le due realtà, identificandosi
nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si
neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica mentale”[5].
Nella Retorica Aristotele dà
questo suggerimento: "bisogna rendere peregrino il linguaggio (dei' poie'n
xevnhn th;n diavlekton), poiché
gli uomini sono ammiratori delle cose lontane" (III, 1404b).
Un'affermazione che trova echi
nello Zibaldone di Leopardi dove leggiamo:"le parole lontano , antico ,
e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e
indefinite, e non determinabili e confuse"(1789). E, più avanti
(4426):"il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere
nel lontano, nell'indefinito, nel vago".
La metafora del resto possiede in massimo
grado chiarezza (to; safev~), piacevolezza (to; hJduv) e stranezza (to; xenikovn), e non è possibile prenderla da
altri (Retorica , III, 1405a).
Faccio l’ esempio di una bella sequenza polimetaforica dei Persiani di Eschilo dove l’u{bri~ è congiunta all' a[th :" u{bri"
ga;r ejxanqou's j ejkavrpwse stavcun - - a[th", o{qen pagklauvton ejxama'/
qevro"" ( vv.821 - 822) la prepotenza infatti fiorendo
dà per frutto una spiga di/ acciecamento, da dove falcia una messe tutta di
lacrime.
“I Persiani sono un
dramma storico, ma trascendono questo livello grazie all’interpretazione che in
essi riceve l’evento: la vittoria dei Greci è opera loro come degli dei che
puniscono l’eccesso con l’empietà (…) Il dramma resta naturalmente anche un
documento storico e non si dovrà dimenticare che il grande resoconto della
battaglia fu scritto da un uomo che vi prese personalmente parte”[6].
Tornando alla Poetica, Aristotele ribadisce
che il poeta è un imitatore: “ ejsti mimhth;~ oJ poihthv~ ” (1460b, 8), come un pittore (wJsperei;
zwgravfo~) o un
altro ritrattista (eijkonopoiov~); allora è necessario che egli imiti in uno dei tre
modi che ci sono: o come le cose erano o sono, o come dicono e sembrano, o come
dovrebbero essere (1460b, 10). Ebbene Sofocle diceva che rappresentava gli
uomini come devono essere, Euripide come sono"(1460b, 34).
Questa famosa affermazione
attribuita dal filosofo stagirita al poeta di Colono dà un'idea della
differenza tra l'idealismo eroicizzante di Sofocle, e il realismo di Euripide
che secondo Aristofane e Nietzsche comincia a degradare l’eroe[7].
Insomma: se il poeta è un imitatore
al pari di ogni altro artista, e si accusa il drammaturgo perché ha ritratto
cose non vere, allora può darsi che egli le abbia rifatte come vorrebbe che
fossero.
giovanni ghiselli
[1] Bettini utilizza questo passo di
Aristotele per indicare un nesso tra enigma e incesto:"Aristotele,
definendo la aijnivgmato" ijdeva, dice che il procedimento dell'enigma consiste nel
"parlare di cose vere legando fra loro adynata ",
cioè cose che non possono (almeno in apparenza) esser legate fra loro.
L'incesto, naturalmente, verifica per l'appunto questo principio. Come si può
essere contemporaneamente "padre" e "fratello" dei propri
figli?" (M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a
proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 145).
Nell'Oedipus di Seneca
si trovano intrecci dove si mescolano e confondono entità diverse, e
tali che dovrebbero rimanere divise:"Effetto della malattia è appunto
quello di confondere, di identificare quello che altrimenti dovrebbe restare
diviso. Non c'è più distinzione di età o di sesso: i giovani muoiono
contemporaneamente ai vecchi, i figli contemporaneamente ai padri. Nella
descrizione della peste, Seneca sembra dunque applicare lo stesso principio
codificato altrove da Aristotele per l'enigma: sunavyai
ajduvnata. Come
l'incesto ovviamente, come l'arcobaleno" (M. Bettini, L'arcobaleno,
l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca,
"Dioniso", 1983, p. 148).
[2] Forse è l’Arifrade ponerov~ che viene a sua volta
sbeffeggiato da Aristofane nei Cavalieri (vv. 1281 sgg. e
nelle Vespe (1280 sgg,) per come ha appreso a lavorare di lingua,
inquinandosela nelle voluttà nefande dei bordelli.
[3] Intelligenza in greco si dice suvnesi" una parola che tradotta
radicalmente significa capacità di mettere insieme cose distanti, di vederne le
somiglianze, e se è vero, come afferma il Menone di Platone,
che "la natura è tutta imparentata con se stessa," th'"
fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh""(81d), coglierne ed
evidenziarne i legami di parentela è compito del genio, del poeta. La stessa
cosa afferma Dostoevskij in I fratelli Karamazov :"il
mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu
tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra.
E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i
bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale
di quanto non sei ora, la vita sarebbe certomigliore "(p.402).
Facciamo l’esempio di una bella
metafora, tratto da Eschilo, l'autore che ce ne fornisce la scelta più ampia
siccome conserva la rigida grandiosità del rituale e l'enfasi ieratica del
linguaggio liturgico:"dia; dev toi genu'n iJppivwn - kinuvrontai fovnon
calinoiv",
attraverso le mascelle dei cavalli, le briglie arpeggiano strage(I sette a
Tebe , vv. 122 - 123).
[4] E. Morin, La testa ben fatta,
p. 94.
[5] J. Ortega y Gasset, Idea del
teatro, p. 48.
[6] A. Lesky, La poesia tragica
dei Greci, p. 125.
[7] Cfr. F. Nietzsche: “mentre Sofocle
dipinge ancora caratteri interi, aggiogando il mito al loro raffinato sviluppo,
Euripide dipinge ormai solo grandi tratti caratteristici, che sanno rivelarsi
in violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto maschere
con una sola espressione, vecchi frivoli, lenoni gabbati,
schiavi scaltri in instancabile ripetizione” (La nascita della tragedia,
capitolo 17, p. 117).
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