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Dopo l’assassinio di Pompeo in Egitto, da Cipro giunse Cordo che era stato suo compagno nella sventura.
Vede sulla battigia il cadavere dell’amico sbranato dagli scogli.
Maesta Cyntia una luna triste parum lucis praebebat
per densas nubes (Lucano, Pharsalia, VIII,721) offriva
poca luce attraverso le dense nubi e il discolor truncus cano aequore
conspicitur (722 - 723) il tronco dal colore diverso si vede nel
flutto canuto.
Tirato a terra il corpo morto con l’aiuto di un’onda, Cordo lo abbraccia e
piangendo parla. Dice alla Fortuna che Pompeo Magno non chiede gli onori
funebri dei capi. Da vilem arcam Magno, dagli una cassa di poco
prezzo e un povero rogo e un sordidus ustor un malvestito che
accenda il fuoco. Abest a munere busti - infelix coniunx
Cornelia nec adhuc a litore longe est (742) la moglie Cornela non
presenzia al dono estremo del rogo pur non essendo ancora lontana dalla
spiaggia.
Cordo vede un altro cadavere: corpus vile bruciato dai
parenti che si allontanano. Allora sottrae tronchi mezzo bruciati semusta
robora a quelle povere membra. Poi parla al morto – quaecumque es - ait
- neglecta nec ulli - cara sed Pompeio felicior umbra - (746 - 747,
chiunque tu sia, ombra trascurata e cara a nessuno dei tuoi parenti, ma più
fortunata di Pompeo, perdona - da veniam - per la violazione del rogo.
Certo ti vergogni di venire bruciato mentre i pezzi di Pompeo sono ancora
sparsi.
Quindi raccoglie della brace che mette nelle pieghe della veste con della
sabbia, poi torna dal cadavere decapitato e ondeggiante. Lo recupera di nuovo e
spazza via la sabbia bagnata. Poi raccoglie pezzi di legno da una nave
sfasciata, li pose tremando dentro una piccola buca exigua trepidus
posuit scrobe (756), vi appoggia il cadavere decapitato di Pompeo e dà
fuoco con il legno che ancora brucia sottratto al rogo del morto sconosciuto
Cfr. Seneca, Oedipus.
Nel Prologo Edipo descrive la peste: I lutti si accumulano sui lutti e per i
disgraziati, come per i delinquenti, cadono i valori forti della tradizione e
della vita ordinata. Anche nella morte irrompe la confusione:
tum propria flammis corpora alienis cremant
diripitur ignis nullus est miseris pudor.
Non ossa tumuli sancta discreti tegunt;
arsisse sat est " (v. 65 - 67)
allora bruciano i cadaveri dei propri familiari su roghi altrui, si ruba il
fuoco, i disgraziati non hanno più alcun pudore. Non ci sono tombe distinte[1] a coprire
le ossa sacre; basta averle bruciate.
Tucidide racconta che nel tempo della peste molti si
volsero a tipi di sepoltura indecenti per mancanza di oggetti necessari, dato
il gran numero di morti: infatti prevenendo quelli che avevano ammucchiato la
pira, alcuni ci mettevano sopra i propri morti, poi davano fuoco, altri vi
gettavano un cadavere che già ardeva, quello di un loro parente. Il lato più
terribile della malattia era lo scoraggiamento deinovtaton de;
panto;" h\n tou' kakou' h[ te ajqumiva (II, 52, 4)
Quando il
male divenne troppo violento (ujperbiazomevnou ga;r tou' kakou') , gli uomini caddero nell’incuria
del santo e del divino ejς oligwrivan ejtravponto kai; iJerw̃n kai; oJsivwn oJmoivwς. (II, 52, 3).
Nella peste descritta da Lucrezio la
disgrazia improvvisa e la miseria indussero a molte orribili cose "multaque
<res> subita et paupertas horrida suasit./ Namque suos consanguineos
aliena rogorum - insuper exstructa ingenti clamore locabant " (De
rerum natura, VI, 1282 - 1284) infatti con alto clamore gettavano i
cadaveri dei congiunti morti sulle cataste erette per i roghi degli altri.
Quindi appiccano il fuoco “multo cum sanguine saepe - rixantes” (1285 - 1286)
lottando in zuffe cruente.
Nella peste di Egina descritta da Ovidio c'è lo stesso tipo di confusione per la medesima caduta di foedera:" Et
iam reverentia nulla est,/deque rogis pugnant alienisque ignibus ardent"
(Metamorfosi, VII, 609 - 610), non c'è più alcuna vergogna, lottano per
i roghi, e ardono con i fuochi degli altri.
[1] Ancora la confusione.
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