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Il poeta deve suscitare
l'interesse del pubblico, ma non è necessario che lo assecondi sempre: "in
numerose epoche soprattutto la poesia drammatica è anche servita ad introdurre
in modo vivo nuove idee riguardanti il campo della politica, dell'etica, della poesia,
della religione ecc. Già Aristofane polemizza nelle sue prime commedie contro
le condizioni interne di Atene e la guerra del Peloponneso" (Estetica,
p.1564).
Il commediografo in
effetti indirizza strali satirici contro il cretinismo parlamentare e i
demagoghi guerrafondai beniamini del popolo, sopra tutti Cleone raffigurato,
nei Cavalieri[1], nel personaggio del ladro,
violento, volgarissimo Paflagone.
Negli Acarnesi
dell'anno precedente l'autore aveva mosso guerra alla guerra voluta dalla
maggioranza.
La commedia offre
maggiore spazio all'attualità e alla soggettività: "così nelle parabasi
Aristofane spesso si dà da fare con il pubblico ateniese, sia perché non
nasconde le sue opinioni politiche sugli avvenimenti e le situazioni del giorno
(...) sia perché cerca di mettere a tacere i suoi avversari e rivali in
arte"(p. 1565).
La parabasi comica è una
specie di intermezzo nel quale il coro si toglie la maschera ed espone
direttamente al pubblico l'opinione del poeta sulla poetica o la politica o sul
costume.
Nelle Nuvole [2] p. e. Aristofane rivendica la propria
forza creativa, il coraggio, e una certa nobiltà d’ animo dicendo al
pubblico:" non cerco di ingannarvi rappresentando due o tre volte la
stessa storia/anzi mi ingegno per portarvi sempre nuove idee/
per niente uguali tra
loro e tutte intelligenti/io che colpii nel ventre Cleone quando era al massimo
della potenza/ e non ebbi la sfrontatezza di calpestarlo quando era
caduto"(vv. 546 - 550).
In effetti Aristofane come opinionista fu
assai critico nei confronti dei colleghi, dei concittadini e dei governanti, e
la tolleranza di cui fruì è un esempio di assoluta parrhsiva , libertà di parola,
nell'Atene degli anni compresi tra il 425 e il 415.
Poi questa un poco alla
volta viene limitata o si limita da sola e con lei sparisce la parabasi.
L'ultima è quella
degli Uccelli del 414.
Interessanti sono
alcune osservazioni di Hegel sull'attore il quale deve essere "lo
strumento su cui suona l'autore, una spugna che assorbe tutti i colori e li
restituisce immutati. Presso gli antichi - aggiunge Hegel - questo era più
facile perché (...) le maschere[3] coprivano i tratti del volto"(Estetica,
p.1575), e il lato mimico era reso obbligatorio dalla musica che accompagnava i
canti del coro. Volendo fare un confronto con l'Opera moderna, la differenza
principale è che in questa la musica sovrasta la parola; inoltre nella tragedia
antica non c'era lo sfarzo scenografico e la "pompa sensibile"
dell'addobbo che da una parte "è segno dell'inizio della decadenza
dell'arte autentica", dall'altra corrisponde a trame intessute di
meraviglioso, fantastico, favoloso, “avulsi dalla connessione intellettuale; e
l’esempio condotto a termine con maggior misura ed arte ci è dato a tale
proposito da Mozart con il suo Flauto magico” (p. 1580).
Nella commedia si trova
a proprio agio la soggettività che "certa di se stessa può sopportare
la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni"(p. 1591). Il
comico richiede contrasti che possono derivare da sforzi seri indirizzati verso
fini meschini, come quando l'avaro prende quale scopo "la morta astrazione
della ricchezza, il danaro", oppure da persone frivole che mirano a
bersagli importanti e difficili: "di tale natura sono, p. e., le Ecclesiazuse
di Aristofane, perché qui le donne, che vogliono deliberare e fondare una nuova
costituzione, conservano tutti i loro capricci e passioni di donne"(p.
1592).
In questa commedia[4] le donne a parlamento fanno un colpo
di Stato, prendono il potere, quindi aboliscono la famiglia e la proprietà
instaurando il comunismo della roba e del sesso. Prassagora, la capobanda,
prescrive che "tutti abbiano tutto in comune"(v.590), la terra, il
denaro e quante altre cose ognuno possiede (v.598). Anche le femmine sono messe
in comune per i maschi, a una condizione: "le più insignificanti e
rincagnate staranno accanto alle belle;/poi, chi ha voglia di una buona, prima
deve sbattersi la brutta" (vv. 616 - 617). Insomma si è provveduto
"perché nessuna resti a buco vuoto"(v. 624).
“Il comico è la parola
che lavora con la propria impotenza, l’azione che si sa immobile, il pensiero
che pensando se stesso “porta in contraddizione e dissolve il proprio agire”
(Hegel)”[5].
Anche la commedia
però, continua Hegel, deve mettere in evidenza il razionale "come ciò che
neanche nella realtà lascia vincere o sussistere fino alla fine la stoltezza e
l'irrazionalità (...) Aristofane non si fa gioco di ciò che di veramente etico
c'è nella vita del popolo ateniese, né dell'autentica filosofia, della vera
fede religiosa, dell'arte genuina; ma quel che egli ci pone dinnanzi nella sua
stoltezza che da se stessa si distrugge sono le aberrazioni della democrazia,
da cui sono spariti l'antica fede e gli antichi costumi, è la sofisticheria, il
tono lamentevole e pietoso della tragedia, le chiacchiere volubili, la
litigiosità ecc., questa nuda contropartita di una vera realtà statale,
religiosa, artistica"(p.1593).
Tanto il tragico quanto
il comico devono giungere a conciliare le contraddizioni sulle quali bisogna
che, attraverso l'agire umano, prevalga "una realtà in sé armonica"
(p. 1595).
Nella drammaturgia
antica si trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il
sacrificio degli individui: "p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi
di Eschilo, concede il diritto alla venerazione ad entrambe le parti, ad Apollo
e alle vergini vendicatrici. Anche nel Filottete si giunge ad
appianare con l'apparizione divina ed il consiglio di Eracle la lotta fra
Neottolemo e Filottete" (p.1595).
L’ultima parte
dell’Orestea[6] giunge ad una conciliazione tra la
religione dei padri e quella delle madri, tra le ragioni di Oreste che ha
ucciso la madre vendicando il padre tradito e assassinato da lei, e quella
delle Erinni, venerande dee che proteggono i vincoli di sangue, soprattutto il
più forte: quello madre - figlio violato dal giovane il quale viene processato
e assolto, non senza però che le sue accusatrici ricevano culti e onori dagli
Ateniesi.
Nel Filottete[7] il rientro dell'eroe ferito
nell'armata dei Greci che l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e
sono rappresentati dal subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli
le armi necessarie alla presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di
Eracle che, disceso dal cielo quale deus ex machina , promette
al protagonista la guarigione e il primo posto nell'esercito acheo (vv.1420 e
sgg.).
Presupposto della
tragedia è una condizione del mondo eroica, l'opposto della situazione moderna
dalla quale scaturisce l'ironia.
La tragedia è fatta di
contrasti: “L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo
particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, quella dello Stato, della
vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come
eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica,
in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà
costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica"(p. 1607).
Hegel ribadisce
che l'Antigone di Sofocle rappresenta al meglio tale collisione: "Antigone
onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la
potenza che governa la vita e il benessere pubblici". Quindi
aggiunge:" Il medesimo conflitto si trova anche nell'Ifigenia in Aulide ,
nell'Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi di
Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. Agamennone come re e capo
dell'esercito sacrifica la figlia all'interesse dei Greci e della spedizione
contro Troia, distruggendo così il vincolo dell'amore per la figlia e la sposa,
che Clitemnestra come madre conserva nel profondo del cuore, apprestando la vendetta
di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste, figlio e figlio del re,
onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del padre, e colpisce il
seno che lo ha generato"(p.1608).
L'ultima grande poesia
della Grecia è la commedia di Aristofane il quale rappresenta figure
come Strepsiade e Socrate (Nuvole ), Bacco (Rane), Cleone (Cavalieri )
piene di presunzione, e risibili per la "sicurezza ingenua della
soggettività"; essi hanno verso loro stessi una ridicola "fiducia
tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che
intraprendono"(p.1618).
L'etico e il divino sono
abbandonati al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori
sintomi della decadenza della Grecia"(p.1619).
Hegel mette il Bacco delle Rane tra
i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “Così per
Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così
per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente
per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce
un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che
vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc.” Sono personaggi risibili per
“la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più
incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono.
Gli stolti sono dei semplicioni (…) che non perdono mai questa sicurezza
ingenua della soggettività”[8].
giovanni ghiselli
[1] Del 424 a. C.
[2] Del 423 a. C. A noi è giunto il testo
rimaneggiato successivamente dall’autore.
[3] Sulla maschera leggiamo anche queste
osservazioni di Ortega Y Gasset: “Coloro che si dedicavano al culto di Dioniso
si mascheravano (…) ci troviamo di fronte a un altro dato sorprendente della
preistoria del teatro, ovvero che la maschera, assieme alla danza,
lo stupefacente e la pantomima, è una delle invenzioni più antiche
dell’umanità. La prima forma umana che ci ricordi un po’ la nostra è quella
del paleolitico, e già qui vediamo come l’uomo utilizzi la maschera. E’ dunque
la maschera sorella e coetanea dell’ascia di selce, della pietra grezza” (Idea
del teatro, p. 102). Sentiamo anche Di Marco: “L’impiego delle maschere
permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli, ivi compresi quelli
femminili: un espediente al quale era inevitabile fare ricorso in un teatro che
utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel quale, come abbiamo
visto, vigeva una norma che limitava a tre il numero massimo di attori a
disposizione di ciasun tragediografo (…) Le maschere erano fatte di lino - talvolta
anche di cartapesta o di cuoio - su cui veniva passato dello stucco: una volta
divenute rigide, si procedeva a dipingerle: secondo una precisa convenzione
“realistica” in uso nella pittura contemporanea, quelle femminili di bianco,
quelle maschili di un colore più scuro. Opportunamente fissate al mento o alla
nuca con delle stringhe, coprivano l’intero volto; ad esse era assicurata una
parrucca, probabilmente di lana” (Op. cit., p. 95).
[4] Del 393 a. C.
[5] M. Cacciari, Hamletica, p.
102.
[6] Del 458 a. C
[7] Del 409 a. C.
[8] Hegel, Estetica, p. 1618.
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