NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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mercoledì 30 dicembre 2020

6 incontri sulla tragedia greca. XVII assaggio. Alcune osservazioni di Hegel sulla commedia

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Il poeta deve suscitare l'interesse del pubblico, ma non è necessario che lo assecondi sempre: "in numerose epoche soprattutto la poesia drammatica è anche servita ad introdurre in modo vivo nuove idee riguardanti il campo della politica, dell'etica, della poesia, della religione ecc. Già Aristofane polemizza nelle sue prime commedie contro le condizioni interne di Atene e la guerra del Peloponneso" (Estetica, p.1564).

 

 Il commediografo in effetti indirizza strali satirici contro il cretinismo parlamentare e i demagoghi guerrafondai beniamini del popolo, sopra tutti Cleone raffigurato, nei Cavalieri[1], nel personaggio del ladro, violento, volgarissimo Paflagone.

Negli Acarnesi dell'anno precedente l'autore aveva mosso guerra alla guerra voluta dalla maggioranza. 

 

La commedia offre maggiore spazio all'attualità e alla soggettività: "così nelle parabasi Aristofane spesso si dà da fare con il pubblico ateniese, sia perché non nasconde le sue opinioni politiche sugli avvenimenti e le situazioni del giorno (...) sia perché cerca di mettere a tacere i suoi avversari e rivali in arte"(p. 1565).

 

La parabasi comica è una specie di intermezzo nel quale il coro si toglie la maschera ed espone direttamente al pubblico l'opinione del poeta sulla poetica o la politica o sul costume.

 

Nelle Nuvole [2] p. e. Aristofane rivendica la propria forza creativa, il coraggio, e una certa nobiltà d’ animo dicendo al pubblico:" non cerco di ingannarvi rappresentando due o tre volte la stessa storia/anzi mi ingegno per portarvi sempre nuove idee/

per niente uguali tra loro e tutte intelligenti/io che colpii nel ventre Cleone quando era al massimo della potenza/ e non ebbi la sfrontatezza di calpestarlo quando era caduto"(vv. 546 - 550).

 

 In effetti Aristofane come opinionista fu assai critico nei confronti dei colleghi, dei concittadini e dei governanti, e la tolleranza di cui fruì è un esempio di assoluta parrhsiva , libertà di parola, nell'Atene degli anni compresi tra il 425 e il 415.

Poi questa un poco alla volta viene limitata o si limita da sola e con lei sparisce la parabasi.

L'ultima è quella degli Uccelli del 414.

 

 Interessanti sono alcune osservazioni di Hegel sull'attore il quale deve essere "lo strumento su cui suona l'autore, una spugna che assorbe tutti i colori e li restituisce immutati. Presso gli antichi - aggiunge Hegel - questo era più facile perché (...) le maschere[3] coprivano i tratti del volto"(Estetica, p.1575), e il lato mimico era reso obbligatorio dalla musica che accompagnava i canti del coro. Volendo fare un confronto con l'Opera moderna, la differenza principale è che in questa la musica sovrasta la parola; inoltre nella tragedia antica non c'era lo sfarzo scenografico e la "pompa sensibile" dell'addobbo che da una parte "è segno dell'inizio della decadenza dell'arte autentica", dall'altra corrisponde a trame intessute di meraviglioso, fantastico, favoloso, “avulsi dalla connessione intellettuale; e l’esempio condotto a termine con maggior misura ed arte ci è dato a tale proposito da Mozart con il suo Flauto magico” (p. 1580).

 

Nella commedia si trova a proprio agio la soggettività che "certa di se stessa può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni"(p. 1591). Il comico richiede contrasti che possono derivare da sforzi seri indirizzati verso fini meschini, come quando l'avaro prende quale scopo "la morta astrazione della ricchezza, il danaro", oppure da persone frivole che mirano a bersagli importanti e difficili: "di tale natura sono, p. e., le Ecclesiazuse di Aristofane, perché qui le donne, che vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione, conservano tutti i loro capricci e passioni di donne"(p. 1592).

 

 In questa commedia[4] le donne a parlamento fanno un colpo di Stato, prendono il potere, quindi aboliscono la famiglia e la proprietà instaurando il comunismo della roba e del sesso. Prassagora, la capobanda, prescrive che "tutti abbiano tutto in comune"(v.590), la terra, il denaro e quante altre cose ognuno possiede (v.598). Anche le femmine sono messe in comune per i maschi, a una condizione: "le più insignificanti e rincagnate staranno accanto alle belle;/poi, chi ha voglia di una buona, prima deve sbattersi la brutta" (vv. 616 - 617). Insomma si è provveduto "perché nessuna resti a buco vuoto"(v. 624).

 

“Il comico è la parola che lavora con la propria impotenza, l’azione che si sa immobile, il pensiero che pensando se stesso “porta in contraddizione e dissolve il proprio agire” (Hegel)”[5].

 

 Anche la commedia però, continua Hegel, deve mettere in evidenza il razionale "come ciò che neanche nella realtà lascia vincere o sussistere fino alla fine la stoltezza e l'irrazionalità (...) Aristofane non si fa gioco di ciò che di veramente etico c'è nella vita del popolo ateniese, né dell'autentica filosofia, della vera fede religiosa, dell'arte genuina; ma quel che egli ci pone dinnanzi nella sua stoltezza che da se stessa si distrugge sono le aberrazioni della democrazia, da cui sono spariti l'antica fede e gli antichi costumi, è la sofisticheria, il tono lamentevole e pietoso della tragedia, le chiacchiere volubili, la litigiosità ecc., questa nuda contropartita di una vera realtà statale, religiosa, artistica"(p.1593).

 

Tanto il tragico quanto il comico devono giungere a conciliare le contraddizioni sulle quali bisogna che, attraverso l'agire umano, prevalga "una realtà in sé armonica" (p. 1595).

Nella drammaturgia antica si trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il sacrificio degli individui: "p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi di Eschilo, concede il diritto alla venerazione ad entrambe le parti, ad Apollo e alle vergini vendicatrici. Anche nel Filottete si giunge ad appianare con l'apparizione divina ed il consiglio di Eracle la lotta fra Neottolemo e Filottete" (p.1595).

 L’ultima parte dell’Orestea[6] giunge ad una conciliazione tra la religione dei padri e quella delle madri, tra le ragioni di Oreste che ha ucciso la madre vendicando il padre tradito e assassinato da lei, e quella delle Erinni, venerande dee che proteggono i vincoli di sangue, soprattutto il più forte: quello madre - figlio violato dal giovane il quale viene processato e assolto, non senza però che le sue accusatrici ricevano culti e onori dagli Ateniesi.

Nel Filottete[7] il rientro dell'eroe ferito nell'armata dei Greci che l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e sono rappresentati dal subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli le armi necessarie alla presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di Eracle che, disceso dal cielo quale deus ex machina , promette al protagonista la guarigione e il primo posto nell'esercito acheo (vv.1420 e sgg.).

 

Presupposto della tragedia è una condizione del mondo eroica, l'opposto della situazione moderna dalla quale scaturisce l'ironia.

La tragedia è fatta di contrasti: “L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, quella dello Stato, della vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica"(p. 1607).

 Hegel ribadisce che l'Antigone di Sofocle rappresenta al meglio tale collisione: "Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici". Quindi aggiunge:" Il medesimo conflitto si trova anche nell'Ifigenia in Aulide , nell'Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. Agamennone come re e capo dell'esercito sacrifica la figlia all'interesse dei Greci e della spedizione contro Troia, distruggendo così il vincolo dell'amore per la figlia e la sposa, che Clitemnestra come madre conserva nel profondo del cuore, apprestando la vendetta di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste, figlio e figlio del re, onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del padre, e colpisce il seno che lo ha generato"(p.1608).

 

L'ultima grande poesia della Grecia è la commedia di Aristofane il quale rappresenta figure come Strepsiade e Socrate (Nuvole ), Bacco (Rane), Cleone (Cavalieri ) piene di presunzione, e risibili per la "sicurezza ingenua della soggettività"; essi hanno verso loro stessi una ridicola "fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono"(p.1618).

 

L'etico e il divino sono abbandonati al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori sintomi della decadenza della Grecia"(p.1619).

 

Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc.” Sono personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni (…) che non perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”[8].

 

giovanni ghiselli

 



[1] Del 424 a. C.

[2] Del 423 a. C. A noi è giunto il testo rimaneggiato successivamente dall’autore.

[3] Sulla maschera leggiamo anche queste osservazioni di Ortega Y Gasset: “Coloro che si dedicavano al culto di Dioniso si mascheravano (…) ci troviamo di fronte a un altro dato sorprendente della preistoria del teatro, ovvero che la maschera, assieme alla danza, lo stupefacente e la pantomima, è una delle invenzioni più antiche dell’umanità. La prima forma umana che ci ricordi un po’ la nostra è quella del paleolitico, e già qui vediamo come l’uomo utilizzi la maschera. E’ dunque la maschera sorella e coetanea dell’ascia di selce, della pietra grezza” (Idea del teatro, p. 102). Sentiamo anche Di Marco: “L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli, ivi compresi quelli femminili: un espediente al quale era inevitabile fare ricorso in un teatro che utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel quale, come abbiamo visto, vigeva una norma che limitava a tre il numero massimo di attori a disposizione di ciasun tragediografo (…) Le maschere erano fatte di lino - talvolta anche di cartapesta o di cuoio - su cui veniva passato dello stucco: una volta divenute rigide, si procedeva a dipingerle: secondo una precisa convenzione “realistica” in uso nella pittura contemporanea, quelle femminili di bianco, quelle maschili di un colore più scuro. Opportunamente fissate al mento o alla nuca con delle stringhe, coprivano l’intero volto; ad esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana” (Op. cit., p. 95). 

[4] Del 393 a. C.

[5] M. Cacciari, Hamletica, p. 102.

[6] Del 458 a. C

[7] Del 409 a. C. 

[8] Hegel, Estetica, p. 1618.

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