Le due cartoline in sé non
erano una gran cosa, forse nemmeno cosa autentica erano. Comunque non potevano
sostituire l’espresso. Però io volevo sperare, e quel giorno sperai.Salus
Mentre ne leggevo con avidità le lettere rosse e grosse come i lamponi che raccoglievo da bambino nei boschi di Moena, mi chiedevo se Ifigenia mi amasse ancora o se volesse soltanto stare altro tempo con me. Posi termine al dilemma angoscioso, siccome era irrisolvibile lì per lì, e mi dissi: “accontentati. Per ora va bene così”.
Se mi amasse ancora, se mi avesse tradito, se avrei potuto amarla dopo tutto il dolore che mi aveva inflitto, me lo sarei chiesto più avanti, dopo averla ascoltata e osservata criticamente. Intanto ero certo che l’avrei incontrata di nuovo e avrei fatto l’amore ancora diverse volte con lei. Non era certezza da poco. Le persone e le situazioni incomplete, imperfette, mi hanno insegnato ad accontentarmi.
Il 16 agosto era il penultimo giorno del corso estivo: la sera ci sarebbe stato il búcsú est nel megaron della nyári egyetem.
Rientrai nell’università. Ogni tanto tornavo a guardare le due cartoline commosso come uno scolaro che si reca nell’aula dove potrà contemplare la ragazza di cui è innamorato seduta in un banco lontano.
Andai al bar per prendere un caffè, quindi, con il bicchiere in mano, scesi nel salone che spazia in fondo all’edificio occupandone tutta la base. Era già stato preparato per la festa dell’addio. C’erano tavoli e seggiole dappertutto tranne che nel centro di quell’ima parte della grande villa degli amori mensili dei miei vent'anni lontani. Quel focolare del megaron era lasciato sgombro per le danze dei giovani che quella sera, dopo un mese di conoscenza si sarebbero scambiati baci, sorrisi e parole di amore eterno, probabilmente per l’ultima volta di questa loro vita mortale. Quasi tutti non si sarebbero visti mai più.
Mi vennero in mente le finniche mie. Le cercavo nelle seggiole vuote. Le trovavo solo dentro di me. Ricordai gli amici incontrati nel ’66 quando arrivai in quel rifugio consolatorio, in quella casa di cura, per la prima volta, desolato e disperato. Allora credevo di essere l’ultimo ragazzo della terra. Tutti potevano maltrattarmi e quasi tutti lo facevano.
Fulvio invece mi aiutò e anche Danilo e pure un paio di fanciulle.
Mi sembrò un miracolo. Mi salvarono. Furono baci e furono sorrisi. Un’Inglese e un’Ucraina, o Bielorussa, non ricordo. Tornai in Italia con rinnovata speme.
“Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!”[1]
Poi vennero gli anni d’oro per la mia generazione: dal '67 al '74, e i corsi estivi più belli con le amicizie e gli amori più grandi, più memorabili.
Negli anni di Helena, Kaisa e Päivi insegnavo ancora alle scuole medie e le sere dell’addio mi rattristavano. Finiva il corso, finiva l’estate, finiva l’amore con le donne piene di significato e io dovevo tornare a una vita, a compagnie poco significative e impegnative. Potevo dire banalità e nessuno se ne accorgeva. Né a Padova né a Pesaro avevo gli stimoli forti, i colpi di sperone che mi incitavano a correre, a non cedere mai, a primeggiare sempre, cedere nescius come il Pelide del quale porto il terzo nome.
Nell’autunno del 1978 però era arrivata Ifigenia quale supplente nel liceo Minghetti dove stavo insegnando e imparando a fondo il greco e il latino. Questa splendida giovane donna poteva scegliere l’uomo che preferiva nella fila dei suoi pretendenti e io avevo ricevuto di nuovo gli stimoli che mi obbligavano a primeggiare: nel lavoro e nello sport.
Sicché questa volta, nell’agosto del ’79, la fine del corso significava il termine di un’attesa angosciante, di una vacanza quale vuoto crudele. Sarei tornato e avrei ritrovato la vita piena conquistata con dura fatica: il lavoro impegnativo, la bicicletta che pedalavo egregiamente da San Luca allo Stelvio, e soprattutto Ifigenia, la bellissima collega che aveva lasciato il marito prestante e facoltoso per fare l’amore con me.
Lei sarebbe passata come ogni cosa, come il petalo e la foglia di rosa, come la pianta d’alloro, come le finniche mie, però l’imperativo di non cedere mai l’ho mantenuto dentro di me con le immagini di quelle creature ancora presenti e vive nella mia vita.
Oggi per esempio, 24 dicembre 2020, sono uscito di casa poco dopo il mezzodì per prendere il giornale e scalare una salita non troppo impegnativa data la bruma fredda e bagnata che mi costringe a indossare chili di indumenti di lana, escrescenza di un corpo pigrissimo che rende pigri e pantofolai. Stavo dunque per andare verso la valle di Zena, quando mi venne in mente un pomeriggio del luglio 2017 pochi giorni dopo l’operazione che mi ridusse la prostata. Nella camera dell’ospedale girava un’aria condizionata gelida che mi faceva rabbrividire sotto tre coperte di lana. Allora presi in mano la borsa del catetere con tanto di urina insanguinata e, dopo averla nascosta sotto il pigiama largo, riuscii a varcare la soglia esterna dell’ospedale, poco sorvegliata del resto. Mi ritrovai sulla strada in un’aria infuocata da quarantadue gradi. Ne ricavai forza, coraggio e buon umore. Il caldo favorisce la vita. La mia di sicuro.
Sicché lo benedissi.
Quindi alzai gli occhi verso il colle di San Luca e giurai che entro Natale sarei arrivato lassù in bicicletta, che oltretutto mi era stata proibita per almeno un mese. Ebbene, il 22 dicembre arrivai alla chiesa e lì, devoto, adorai la dea Salute e sciolsi il voto. Da quel giorno felice ogni anno ripeto tale scalata in un dì prossimo al Natale, rendo grazie alla dea Salus e festeggio la rinascita del sole.
Bologna 24 dicembre 2020 ore 19, 45
giovanni ghiselli
p. s.
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BUON NATALE A TUTTI VOI
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