Ancora suSchiller
"Attraverso la sofferenza, la comprensione"
Per non limitarci alla
letteratura greca e ai suoi interpreti, aggiungo autori successivi. Nell'Eneide di Virgilio Didone
incoraggia i Troiani giunti naufraghi sulle coste della Libia ricordando che
anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e
diffidente, ma pure compassionevole verso i disgraziati: "non ignara
mali miseris succurrere disco "(I, 630), non ignara del male
imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas non verrà
contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei
nostri autori e dovrebbe esserlo nella scuola :"E infine, possiamo
imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze
di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[1].
“Virgilio insiste, com’è
ben noto, sull’umanità del personaggio, che, avendo sofferto, è particolarmente
sensibile al dolore degli altri”[2].
Friederich Schiller impiega
la norma del tw'/ pavqei mavqo~ in molte delle sue
tragedie, particolarmente nella Maria Stuarda (1802): “il
personaggio della infelice regina cattolica sembra tra tutti il più adatto ad
essere il fulcro d’una tragedia di ispirazione euripidea…secondo quelle leggi
drammatiche già prospettate nel saggio Vom Erhabenen [3], 1793, per le quali “Se la prima legge
dell’arte tragica è rappresentare la natura sofferente, la seconda legge è
rappresentare la resistenza morale a quelle sofferenze”[4]. Maria muore non solo rassegnata ma felice
del proprio matirio: “La prigione si apre,/e lieta la mia anima vola/verso
l’eterna libertà (…) ora/ benefica e dolce mi si affianca/la morte come una
severa amica (…) Sento/di nuovo sul mio capo la corona/e l’antica dignità
rivive/nell’animo lavato dal dolore” (Maria Stuarda, V, 4).
F. Dostoevskij in Ricordi
del sottosuolo (del 1864) scrive:" io sono convinto che l’uomo
non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè alla distruzione e al
caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza (…) In realtà io
continuo a pormi una domanda oziosa: che cos'è meglio, una felicità da quattro
soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos'è meglio?" (p. 234 e p.
320).
Lo stariez Zossima nei
Fratelli Karamazov dice le sue ultime volontà ad Alioscia: “ Avrai molto da
fare. Ma non dubito di te, e perciò ti mando nel mondo. Cristo sarà sempre con
te. ConservaLo nel tuo cuore, ed anche Lui ti conserverà. Conoscerai grandi
sofferenze, e nel dolore troverai la felicità. Eccoti il mio testamento: nelle
sofferenze cerca la felicità. E lavora, lavora senza tregua”[5].
H. Hesse, in Siddharta (p.135)
esprime con altre parole l'antica legge eschilea del tw/'
pavqei mavqo":"Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito, come una
ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per rovistarci
dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce".
Dalla donna che ci fa
soffrire si impara anche.
Su questo possiamo
sentire Proust: "Perché solo la felicità è salutare al corpo, ma
è il dolore a sviluppare le energie dello spirito (…) Una donna di cui abbiamo
bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi serie di sentimenti ben più profondi,
ben altrimenti vitali di quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi.
Resta da sapere, secondo il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il
tradimento col quale ci ha fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in
confronto delle verità che ci ha rivelate, verità che la donna, paga d'aver
fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere (...) Facendomi perdere il
mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche
sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie
"scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e
può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare
senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la
vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante!"[6].
La sofferenza si confà
alla chiarezza della visione e pure all'arte:"Spesso solo per mancanza
d'ingegno creativo non ci spingiamo abbastanza oltre nella sofferenza. E la
realtà più atroce suol dare, insieme con la sofferenza, la gioia d'una bella scoperta,
perché non fa che dare una forma nuova e chiara a quello che andavamo
rimuginando da un pezzo senza rendercene conto"[7].
“La sofferenza, per
quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo di esistere, poiché è l’unico
modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di
quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la
testimonianza della nostra identità”[8].
Sentiamo ancora qualche
testimonianza.
D'Annunzio attribuisce al piacere maggiore
efficacia pedagogica che al dolore :"Ella[9] ci
persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[10]: lo
sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di
un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna
che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e
che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha
gioito"[11].
Sentiamo Verga: “Hanno imparato presto perché
hanno visti guai assai! - diceva padron jNtoni: - il giudizio viene colle disgrazie”[12].
Torniamo a C.
Pavese:" la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a
niente"[13].
“Soffrire non serve a
niente (26 novembre ‘37).
Soffrire limita
l’efficienza spirituale (17 giugno ‘ 38).
Soffrire è sempre colpa
nostra (29 settembre ’38)
Soffrire è una debolezza
(13 ottobre ’38)
Almeno un’obiezione c’è:
se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle sentenze”[14].
“Qualunque sofferenza
che non sia anche conoscenza è inutile”[15].
Mi avvio alla
conclusione con un personaggio, Boppi, di un romanzo giovanile di H. Hesse:"
mi capitò di diventare l’allievo meravigliato e riconoscente di un misero
storpio. Se un giorno arriverò davvero a compiere il poema iniziato da gran
tempo e a pubblicarlo, vi si troverà ben poco di buono che io non abbia
imparato da Boppi. Incominciò per me un periodo buono e piacevole nel quale
troverò da nutrirmi per tutta la vita. Mi fu concesso di vedere addentro una
magnifica anima umana sulla quale malattia, solitudine, povertà e maltrattamenti
erano passati soltanto come nuvole leggere e vaganti. Tutti i piccoli vizi coi
quali ci amareggiamo e guastiamo la vita bella e breve, l’ira, l’impazienza, la
menzogna, tutte queste odiose e luride piaghe che ci deformano erano state
cauterizzate in quell’uomo da lunghi e profondi dolori. Non era un saggio, né
un angelo, ma un uomo pieno di comprensione e di affetto che, a furia di
tremende sofferenze e di gravi privazioni aveva imparato a sentirsi debole
senza vergognarsi, e ad affidarsi nelle mani di Dio"[16].
Concludo questo
argomento citando Piero Boitani, professore di Letterature comparate
nell’Università di Roma “La Sapienza”, e amico umano: “La vita è fatta della
nostra relazione con gli altri, non solo di contemplazione della natura o di
noi stessi. Penso che per sopravvivere con gli altri sia necessario compatire:
non soltanto nel senso di avere pietà nei loro confronti, di guardare alle loro
e alle nostre sventure con umana pietas, ma di “soffrire con”, “com
- patire”. Se soffriamo con gli altri, se prendiamo su di noi i loro dolori,
riconosciamo l’essere umano che è in loro, e in noi, in maniera assai più
profonda di quanto non ci consenta il semplice conoscere…Leggere la compassione
nell’Elettra di Sofocle, ma poi cercarne le variazioni in Omero, in
Proust, in Guerra e Pace. Temi e tradizioni. La letteratura è un
albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri - scrittura è
il principio che ne governa la crescita”[17].
E più avanti,
specificamente sul tw/' pavqei maqo~: “La sofferenza,
allora, è un prerequisito del riconoscimento. Se la Genesi ebraica postula che
il prezzo del sapere sia la morte[18], i
Greci sapevano perfettamente che la conoscenza si può acquisire soltanto
attraverso il dolore. Era saggezza comune fin dai tempi di Omero ed Esiodo[19], ma
è stato Eschilo, all’inizio della tragedia, ad esprimerla in maniera memorabile
nell’Agamennone, quando il coro intona il famoso “Inno a Zeus”[20]
Zeus, chiunque egli sia,
se è questo il nome
Con cui gli è caro
essere invocato,
così a lui mi rivolgo:
nulla trovo cui compararlo,
pur tutto attentamente
vagliando,
tranne Zeus, se
veramente si deve gettar via
il vano peso dal proprio
pensiero.
(...)
Ma chi a Zeus con gioia
leva il grido epinicio
Coglierà pienamente la
saggezza -
A Zeus che ha avviato i
mortali
A essere saggi, che ha
posto come valida legge
“saggezza attraverso la
sofferenza”.
Invece del sonno
(oppure: “anche nel sonno”) stilla davanti al cuore
un’angoscia memore di
dolori:
anche a chi non vuole
arriva saggezza.
Pathei mathos: questa è l’indicazione
di Zeus per il phronein umano, la “prudenza” che è saggezza”[21].
Aggiungo i due versi
dell’Agamennone opportunamente indicati da Boitani in nota: “Divka
de; toi'~ me;n paqou' - sin maqei'n ejpirrevpei” (Agamennone, vv. 250 - 251),
Giustizia fa pendere comprensione verso quelli che hanno sofferto.
giovanni ghiselli 27
dicembre ore 19, 57.
Vado a correre al buio
al freddo e al gelo
p. s
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[1] E.
Morin, La testa ben fatta, p. 49.
[2] A. La Penna, Prima lezione di
letteratura latina, p. 150.
[3] Sul sublime ndr.
[4] Schiller Tutto il teatro 3,
Introduzione di Paolo Chiarini, p. 108.
[5] F. Dostoevskij, I fratelli
Karamazov, p. 123.
[6]M. Proust, Il tempo ritrovato ,
pp 238, 239 e 242.
[7] M. Proust, Sodoma e Gomorra,
p. 549.
[8] O. Wilde, De Profundis, in Oscar
Wilde Opere, p. 653.
[9] La vita.
[10] " Se il chiavare non fosse la
cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì" (C.
Pavese, Il mestiere di vivere , 25 dicembre, 1937). Ndr.
[11] Il fuoco (del 1900) p.
95.
[12] G. Verga, I Malavoglia,
p. 221.
[13] C. Pavese, Il mestiere di
vivere, 25 novembre 1937.
[14] Il mestiere di vivere, 27
ottobre 1938.
[15] Il mestiere di vivere, 19
gennaio 1939.
[16]H. Hesse, Peter Camezind (del
1904), p. 117.
[17] P. Boitani, Prima lezione
sulla letteratura, pp. X ss.
[18] Genesi 2. 17 riporta l’ordine di Dio
ad Adamo: “ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi
mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”…Nella tradizione
occidentale c’è anche un legame costante tra l’anagnorisis e la
cecità (o la morte: Edipo e Lear) e tra l’anagnorisis e il
ragionamento, di cui ho scritto Il genio di migliorare un’invenzione,
cit.
[19] Per l’importanza del pathei
mathos nella tragedia, si veda Kuhn Die wahre Tragödie, cit., pp. 254 - 255. I loci più
importanti della tradizione soo Omero, Iliade, XVII, 32;
Esiodo, Opere e giorni, 218; Erodoto, I, 207, 1; Sofocle, Edipo
re, 402; Sofocle, Antigone, 1190; Platone, Simposio,
222b. Per un elenco generale e una discussione si veda H.
Dorrie, Leid und Erfahrung, in “Abhandlunen der Akademie der
Wissenschaft und der Literatur”, Mainz, 5, 1956.
[20] Eschilo, Agamennone, 160 - 180 (e si
vedano anche i vv. 250 - 252). L’edizione usata è quella curata da V. Di
Benedetto, Mondadori, Milano 1995. Si veda anche E. Severino, Il giogo.
Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano, 1989.
[21] Piero Boitani, Prima lezione
sulla letteratura, pp. 109 - 110.
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