NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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domenica 27 dicembre 2020

6 incontri sulla tragedia greca. Decimo assaggio. Attraverso la sofferenza, la comprensione

Schiller
Ancora su
"Attraverso la sofferenza, la comprensione"

 

Per non limitarci alla letteratura greca e ai suoi interpreti, aggiungo autori successivi. Nell'Eneide di Virgilio Didone incoraggia i Troiani giunti naufraghi sulle coste della Libia ricordando che anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e diffidente, ma pure compassionevole verso i disgraziati: "non ignara mali miseris succurrere disco "(I, 630), non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas non verrà contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e dovrebbe esserlo nella scuola :"E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[1].

“Virgilio insiste, com’è ben noto, sull’umanità del personaggio, che, avendo sofferto, è particolarmente sensibile al dolore degli altri”[2].

 

Friederich Schiller impiega la norma del tw'/ pavqei mavqo~ in molte delle sue tragedie, particolarmente nella Maria Stuarda (1802): “il personaggio della infelice regina cattolica sembra tra tutti il più adatto ad essere il fulcro d’una tragedia di ispirazione euripidea…secondo quelle leggi drammatiche già prospettate nel saggio Vom Erhabenen [3], 1793, per le quali “Se la prima legge dell’arte tragica è rappresentare la natura sofferente, la seconda legge è rappresentare la resistenza morale a quelle sofferenze”[4]. Maria muore non solo rassegnata ma felice del proprio matirio: “La prigione si apre,/e lieta la mia anima vola/verso l’eterna libertà (…) ora/ benefica e dolce mi si affianca/la morte come una severa amica (…) Sento/di nuovo sul mio capo la corona/e l’antica dignità rivive/nell’animo lavato dal dolore” (Maria Stuarda, V, 4).

 

 F. Dostoevskij in Ricordi del sottosuolo (del 1864) scrive:" io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè alla distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza (…) In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos'è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos'è meglio?" (p. 234 e p. 320).

 

Lo stariez Zossima nei Fratelli Karamazov dice le sue ultime volontà ad Alioscia: “ Avrai molto da fare. Ma non dubito di te, e perciò ti mando nel mondo. Cristo sarà sempre con te. ConservaLo nel tuo cuore, ed anche Lui ti conserverà. Conoscerai grandi sofferenze, e nel dolore troverai la felicità. Eccoti il mio testamento: nelle sofferenze cerca la felicità. E lavora, lavora senza tregua”[5].

  

 H. Hesse, in Siddharta (p.135) esprime con altre parole l'antica legge eschilea del tw/' pavqei mavqo":"Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce".

 

Dalla donna che ci fa soffrire si impara anche.

 

Su questo possiamo sentire Proust: "Perché solo la felicità è salutare al corpo, ma è il dolore a sviluppare le energie dello spirito (…) Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha rivelate, verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere (...) Facendomi perdere il mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie "scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante!"[6].

 

La sofferenza si confà alla chiarezza della visione e pure all'arte:"Spesso solo per mancanza d'ingegno creativo non ci spingiamo abbastanza oltre nella sofferenza. E la realtà più atroce suol dare, insieme con la sofferenza, la gioia d'una bella scoperta, perché non fa che dare una forma nuova e chiara a quello che andavamo rimuginando da un pezzo senza rendercene conto"[7].

 

“La sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo di esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra identità”[8].

 

Sentiamo ancora qualche testimonianza.

D'Annunzio attribuisce al piacere maggiore efficacia pedagogica che al dolore :"Ella[9] ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[10]: lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito"[11].

 

Sentiamo Verga: “Hanno imparato presto perché hanno visti guai assai! - diceva padron jNtoni: - il giudizio viene colle disgrazie”[12].

 

Torniamo a C. Pavese:" la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente"[13]

“Soffrire non serve a niente (26 novembre ‘37).

Soffrire limita l’efficienza spirituale (17 giugno ‘ 38).

Soffrire è sempre colpa nostra (29 settembre ’38)

Soffrire è una debolezza (13 ottobre ’38)

Almeno un’obiezione c’è: se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle sentenze”[14].

“Qualunque sofferenza che non sia anche conoscenza è inutile[15].

 

Mi avvio alla conclusione con un personaggio, Boppi, di un romanzo giovanile di H. Hesse:" mi capitò di diventare l’allievo meravigliato e riconoscente di un misero storpio. Se un giorno arriverò davvero a compiere il poema iniziato da gran tempo e a pubblicarlo, vi si troverà ben poco di buono che io non abbia imparato da Boppi. Incominciò per me un periodo buono e piacevole nel quale troverò da nutrirmi per tutta la vita. Mi fu concesso di vedere addentro una magnifica anima umana sulla quale malattia, solitudine, povertà e maltrattamenti erano passati soltanto come nuvole leggere e vaganti. Tutti i piccoli vizi coi quali ci amareggiamo e guastiamo la vita bella e breve, l’ira, l’impazienza, la menzogna, tutte queste odiose e luride piaghe che ci deformano erano state cauterizzate in quell’uomo da lunghi e profondi dolori. Non era un saggio, né un angelo, ma un uomo pieno di comprensione e di affetto che, a furia di tremende sofferenze e di gravi privazioni aveva imparato a sentirsi debole senza vergognarsi, e ad affidarsi nelle mani di Dio"[16].

 

Concludo questo argomento citando Piero Boitani, professore di Letterature comparate nell’Università di Roma “La Sapienza”, e amico umano: “La vita è fatta della nostra relazione con gli altri, non solo di contemplazione della natura o di noi stessi. Penso che per sopravvivere con gli altri sia necessario compatire: non soltanto nel senso di avere pietà nei loro confronti, di guardare alle loro e alle nostre sventure con umana pietas, ma di “soffrire con”, “com - patire”. Se soffriamo con gli altri, se prendiamo su di noi i loro dolori, riconosciamo l’essere umano che è in loro, e in noi, in maniera assai più profonda di quanto non ci consenta il semplice conoscere…Leggere la compassione nell’Elettra di Sofocle, ma poi cercarne le variazioni in Omero, in Proust, in Guerra e Pace. Temi e tradizioni. La letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri - scrittura è il principio che ne governa la crescita”[17].

E più avanti, specificamente sul tw/' pavqei maqo~: “La sofferenza, allora, è un prerequisito del riconoscimento. Se la Genesi ebraica postula che il prezzo del sapere sia la morte[18], i Greci sapevano perfettamente che la conoscenza si può acquisire soltanto attraverso il dolore. Era saggezza comune fin dai tempi di Omero ed Esiodo[19], ma è stato Eschilo, all’inizio della tragedia, ad esprimerla in maniera memorabile nell’Agamennone, quando il coro intona il famoso “Inno a Zeus”[20]

Zeus, chiunque egli sia, se è questo il nome

Con cui gli è caro essere invocato,

così a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,

pur tutto attentamente vagliando,

tranne Zeus, se veramente si deve gettar via

il vano peso dal proprio pensiero.

(...)

 

Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio

Coglierà pienamente la saggezza -

 

A Zeus che ha avviato i mortali

A essere saggi, che ha posto come valida legge

“saggezza attraverso la sofferenza”.

Invece del sonno (oppure: “anche nel sonno”) stilla davanti al cuore

un’angoscia memore di dolori:

anche a chi non vuole arriva saggezza.

 

Pathei mathos: questa è l’indicazione di Zeus per il phronein umano, la “prudenza” che è saggezza”[21]

Aggiungo i due versi dell’Agamennone opportunamente indicati da Boitani in nota: “Divka de; toi'~ me;n paqou' - sin maqei'n ejpirrevpei” (Agamennone, vv. 250 - 251), Giustizia fa pendere comprensione verso quelli che hanno sofferto. 

 

giovanni ghiselli 27 dicembre ore 19, 57.

Vado a correre al buio al freddo e al gelo

 

p. s

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[1] E. Morin, La testa ben fatta, p. 49.

[2] A. La Penna, Prima lezione di letteratura latina, p. 150.

[3] Sul sublime ndr.

[4] Schiller Tutto il teatro 3, Introduzione di Paolo Chiarini, p. 108.

[5] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 123.

[6]M. Proust, Il tempo ritrovato , pp 238, 239 e 242.

[7] M. Proust, Sodoma e Gomorra, p. 549.

[8] O. Wilde, De Profundis, in Oscar Wilde Opere, p. 653.

[9] La vita.

[10] " Se il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì" (C. Pavese, Il mestiere di vivere , 25 dicembre, 1937). Ndr.

[11] Il fuoco (del 1900) p. 95.

[12] G. Verga, I Malavoglia, p. 221.

[13] C. Pavese, Il mestiere di vivere, 25 novembre 1937.

[14] Il mestiere di vivere, 27 ottobre 1938.

[15] Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1939.

[16]H. Hesse, Peter Camezind (del 1904), p. 117.

[17] P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura, pp. X ss.

[18] Genesi 2. 17 riporta l’ordine di Dio ad Adamo: “ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”…Nella tradizione occidentale c’è anche un legame costante tra l’anagnorisis e la cecità (o la morte: Edipo e Lear) e tra l’anagnorisis e il ragionamento, di cui ho scritto Il genio di migliorare un’invenzione, cit.

[19] Per l’importanza del pathei mathos nella tragedia, si veda Kuhn Die wahre Tragödie, cit., pp. 254 - 255. I loci più importanti della tradizione soo Omero, Iliade, XVII, 32; Esiodo, Opere e giorni, 218; Erodoto, I, 207, 1; Sofocle, Edipo re, 402; Sofocle, Antigone, 1190; Platone, Simposio, 222b. Per un elenco generale e una discussione si veda H. Dorrie, Leid und Erfahrung, in “Abhandlunen der Akademie der Wissenschaft und der Literatur”, Mainz, 5, 1956. 

[20] Eschilo, Agamennone, 160 - 180 (e si vedano anche i vv. 250 - 252). L’edizione usata è quella curata da V. Di Benedetto, Mondadori, Milano 1995. Si veda anche E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano, 1989.

[21] Piero Boitani, Prima lezione sulla letteratura, pp. 109 - 110.

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