Vero è pure che il pavqo~ può essere valorizzato e redento dal mavqo~, secondo quanto afferma il coro di vecchi argivi nella Parodo dell’Agamennone di Eschilo: tw/' pavqei mavqo" [1], attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[2].
Una sentenza topica che ha avuto un lungo seguito nella letteratura europea: da Euripide, a Menandro, a Proust, a Hermann Hesse.
Vediamone alcune espressioni.
Un tovpo" etico e psicologico diffuso è quello del tw/' pavqei mavqo" [3], attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[4]. Voglio darne un ampio quadro.
La sofferenza che conduce alla comprensione.
Esiodo. Pavese. Sofocle. Euripide. Menandro. Polibio. Nietzsche. Virgilio. Schiller. Dostoevskij. H. Hesse. Proust. Wilde. D'Annunzio. Verga. Di nuovo Pavese. Ancora Hesse. Piero Boitani
Tale legge si trova in tutte le espressioni letterarie collegate all'oracolo delfico.
Esiodo afferma che la giustizia, quando si giunge alla fine, supera la prepotenza e soffrendo anche lo stolto impara (Opere e giorni, vv. 217 - 218).
Viceversa Pavese: “Non bastano le disgrazie a fare di un fesso una persona intelligente”[5].
Nell'opera di Sofocle questa concatenazione di delitto - castigo - riconoscimento degli errori, è messa in piena evidenza alla fine dell'Antigone, quando Creonte riceve la notizia del terzo suicidio provocato da lui e dichiara la propria colpa che lo ha annichilito: "a[getev m j ejkpodwvn, - to;n oujk o[nta ma'llon h] mhdevna", portatemi via, io non sono più di un nessuno (vv.1324 - 1325).
Nel poeta di Colono questo comprendere tardivo non salva dalla catastrofe chi ha sbagliato.
Un caso di lieto fine in seguito a resipiscenza invece possiamo trovarlo nell'Alcesti di Euripide. Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw", condurrò una vita penosa: ora comprendo (v.940). In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
C. Del Grande in Tragw/diva afferma che pure la commedia nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico.
E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte" (L’arbitrato): il marito che aveva ripudiato la moglie per un presunto errore sessuale di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso insieme, quando si accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla propria innocenza di uomo attento alla reputazione:" ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn" (v. 588), io uno senza peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchma", un infortunio involontario della donna (v.594).
“Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza di Menandro sta nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni psicologiche, da temi così inconsistenti (…) i poeti più antichi erano spinti a comporre da motivi di contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta, scoprire una verità, indagare la virtù ecc.
Dopo l’intermezzo democratico, con la fioritura ateniese della tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro talento alle corti dei monarchi (…) E come Menandro essi rinunciano al pathos, ai programmi morali, all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il comportamento degli uomini”[6].
Nell’Arbitrato di Menandro c’è secondo Del Grande, un "vero momento di mavqo" tragico"[7].
Sulla medesima linea si trova il Duvskolo" : il vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una caduta nel pozzo, comprende che nessuno è tanto autosufficiente da potere vivere senza l'aiuto del prossimo, e deve ammettere: "e{n d j i[sw" h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn wj/ovmhn - aujto;" aujtavrkh" ti" ei\nai kai; dehvsesq j oujdenov"" (vv.713 - 714), in una cosa probabilmente ho sbagliato: a credere di essere il solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno. In Menandro dunque rimane vigente la legge tragica per la quale attraverso le proprie sofferenze si impara e si diventa più comprensivi:"non si può dire che mavqo" non ci sia stato (...) Il paradigma in funzione esemplare è evidente"[8].
Del resto già nel Prologo il dio Pan aveva detto a proposito di Gorgia: “ oJ pai`~ uJpe;r th;n hJlikivan to;n nou`n e[cwn / proavgei ga;r hj tw'n pragmavtwn ejmpeiriva, vv. 28 - 29, è un ragazzo che ha cervello al di sopra della sua età:/infatti l'esperienza delle difficoltà fa crescere.
Anche il "pragmatico" e "universale" Polibio riconosce valore educativo alla sofferenza: al cambiamento in meglio si giunge attraverso due vie: quella dei patimenti propri e quella dei patimenti altrui (tou' te dia; tw'n ijdivwn sumptwmavtwn kai; dia; tw'n ajllotrivwn); la prima è più efficace ("ejnargevsteron"), la seconda meno dannosa ("ajblabevsteron", Storie, I, 35, 7).
Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore (…) la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore (…) quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[9].
La "Classicità non è chiarezza sin dall'inizio, bensì contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia risanata".[10]
Sulla sofferenza positiva Nietzsche si esprime in Di là dal bene e dal male[11]: "il grado gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità cui è capace di giungere la sofferenza degli uomini, - la sua raccapricciante certezza (…) di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (p. 200).
giovanni ghiselli
[1] Eschilo, Agamennone, 177.
[2] Si veda la massima beethoveniana "Durch Leiden Freude", attraverso la sofferenza la gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La testa ben fatta, p. 43 n. 7.
[3] Eschilo, Agamennone, 177. E, poco più avanti :"goccia invece del sonno davanti al cuore/il penoso rimorso, memore delle pene inflitte; e anche/sui recalcitranti arriva il momento della saggezza" ( kai; par j a[ - konta" h\lqe swfronei'n , Agamennone, vv. 179 - 181).
[4] Si veda la massima beethoveniana "Durch Leiden Freude", attraverso la sofferenza la gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La testa ben fatta, p. 43 n. 7.
[5] Il mestiere di vivere, 2 novembre 1938.
[6] B. Snell, Poesia e società, pp. 156 - 157.
[7] Tragw/diva , p. 209.
[8] Del Grande, op. cit. p. 214.
[9] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[10] B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica , p. 141.
[11] Del 1875
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