Lucano, Pavese, Coleridge
Le navi di Cesare salpano da
Brindisi ma cade il vento. 48 a. C. gennaio
Phoebo labente sub undas, mentre Febo scivolava sotto le
onde e si vedevano prima sidera poli (Lucano Pharsalia,
V, 424) i marinai sciolgono le navi. Et luna iam suas fecerat umbras (425)
Ma una volta lasciata la terra, il
vento cade e subentra una saeva quies pelagi (442), una calma
crudele del mare.
Il mare non è mosso “non
horrore tremit, non solis imagine vibrat” (446) non è increspato da
brividi, non vibra per il riflesso del sole. Le navi sono inchiodate fixae
carinae (447) ed esposte a rischi: le navi nemiche, la fame.
Nova vota timori- sunt inventa novo (450-451) nuovi desideri sono
trovati per paure nuove.
Pregano che arrivino tempeste pur di
uscire da quel torpore stagnante. Ma non si vedono onde minacciose e naufragii
spes omnis abit (455) se ne va ogni speranza di fare naufragio.
Speranza paradossale che sopravviene quando la paura è indeterminata e imprecisa.
“Più il dolore è determinato e
preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio”
(Cesare Psavese, Il mestiere di vivere, 18 agosto 1950)
Cfr. The Rime of the Ancient Mariner di Samuel
Taylor Coleridge (1798):
“Day after day, day after day,
We stuck, nor breath nor motion;
As idle as a painted ship
Upon a painted ocean” (Parte II, 33-36)
giorno dopo
giorno, giorno dopo giorno, rimanemmo conficcati (cfr. fixae
carinae) , non alito, non moto, inerti come una nave dipinta su un oceano
dipinto.
giovanni ghiselli
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