venerdì 16 luglio 2021

La storia di Elena Sarjantola. V capitolo. Elena e gli amici

Tornai al tavolo degli Italiani, non lontano da quello dei Finnici.


“Siamo alle solite Gianni, punti le finniche”? mi domandò il povero Bruno Pera, già sacro alla morte non tanto lontana. Una sorte amara e degna di riflessioni dolorose, anche se il personaggio non mi era del tutto simpatico.

“Sì, certo - risposi con disappunto - perché, a te fanno schifo?”

“No - disse – tu però mi sembri ripetitivo, fissato, e anche un poco razzista”.

Era un rivale, un donnaiolo del resto meno attento di me alla qualità.

Lui non cercava l’identità nell’amore: aveva da tempo una fidanzata in Italia che lo raggiunse pure.

“Questo è l’anno della degradazione!”, gridava ogni tanto. Allora non sapevo perché.


Digressione brevissima in memoria di Bruno, il ragazzo romano morto ante diem.

Forse Apollo, o la Pizia seduta sull’ombelico del mondo, gli avevano sussurrato il destino, e ne sentiva la pala spietata già vicina ad arrotarlo, a travolgerlo, e gli dava voce, con macabra preveggenza.

Del resto, povero Bruno, hai evitato la degradazione della vecchiaia che ora mi incalza assai da vicino. Pensa che mi sono tagliato i baffi nerissimi che avevo allora e mi stavano bene, come i tuoi a te. Bianchi facevano schifo alle donne giovani che ci piacevano tanto. A te non sono venuti. Non gliene hai dato tempo. Finché sei stato al mondo, piacevi alle donne. Non meno di me, lo riconosco. Eri un rivale degno. Del resto ci andavano a genio  donne  diverse: mai ci siamo scontrati. Non da rusticani.

Anzi, ricordo che quell’estate, la nostra penultima estate comune, notasti che io, come te, mantenevo la linea, mentre Claudio era diventato “un cesso d’omo”.

Con i capelli me la cavo ancora: ho solo qualche filo bianco. Spero che tengano duro, i miei  crini scuri, e il crine  della vita duri ancora del tempo.

Atropo ha spezzato  troppo presto lo stame della  vita tua . Mi dispiace Bruno, mi dispiace molto. Mi sei mancato in questi decenni.


Claudio mi disse soltanto: “bella sì la tua fiamma , però non guzza mica”.

“Te lo faccio vedere io”, pensai, ma non lo dissi. Sarebbe stata ybris, infatti,   ribattere la iattanza con altra iattanza.  

Ripresi a guardare la finnica bella e fine, con sguardo un poco obliquo per non darlo a vedere. L’avevo presa di mira e non volevo che se ne accorgesse.

 Parlava poco, in modo soave, senza bere alcolici, sempre senza fumare e senza scomporsi. Consideravo il non fumare un predicato di nobiltà. Allora era raro, come ora non avere il telefonino.

La rarità scandalizza gli idioti, i servi più tenaci e brutali di ogni moda e assuefazione. L’originalità, anche se non affettata, dà fastidio a costoro.

Vedevo Helena come un’immagine già dipinta dentro di me.

In seguito mi disse che non beveva e non fumava anche perché sospettava di essere incinta. Forse per lo stesso motivo mi aveva concesso così poco tempo, e agli altri corteggiatori ancora di meno. Ma in quel momento non lo sapevo, e avevo bisogno di attribuirle ogni virtù, in modo che se mi avesse dato il suo assenso, avrei potuto farne un idolo, o almeno un modello da imitare per precisare la mia identità e rendere migliore me stesso.

La guardavo senza ascoltare i miei amici e impiegavo tutte le energie della mente per capire come potessi arrivare a lei di nuovo; questa volta però andandole a genio. Ne avevo bisogno. Non potevo fallire. Per crescere, per diventare un uomo, dovevo succhiare in senso fisico e metafisico le sue ubertose mammelle[6] che, solo a guardarle, diffondevano soavità e una strana consolazione.

La bella donna sembrava piuttosto spaesata e disorientata in quell’ambiente di ragazzi, di sposati e di vecchi, un luogo nuovo per lei, mentre io ci avevo già raccolto esperienze di amicizia e di sesso, se non proprio di amore, e conservavo ricordi importanti, utili a fare dei nessi. Potevo fruire di un certo vantaggio.

Ripresi a incoraggiarmi mentalmente: “Dai Gianni ché ce la puoi fare. Dai, che tu non sei male; anzi sei l’unico della sua levatura. Pensa agli altri italiani. Claudio, a parte lo stomacone, non è brutto, è colto, e non è stupido, ma è un goliardone che fa del casino; la sua insensibilità pachidermica di certo non si confà a quella femmina umana. Luigino è un raffinato, ma, per fortuna, è un cinedo tra i più sdilinquiti: lo chiamiamo “Natica svelta” senza sua offesa; Danilo beve e rutta, talora brancola e sospira per gli alcolici amati. Se li sogna anche di notte”.


Danilo; digressione breve

Ricordai un episodio, per farmi venire del buonumore.

Una mattina il bevitore  professionista era steso nel letto, a pancia in su, a bocca aperta. Sembrava che non respirasse. Non capivo se era morto oppure, come al solito, ebbro. A un tratto si svegliò piangendo e gridando: Dioniso gli aveva riempito la mente di furore mandandogli in sogno la visione di una bottiglia di Tocai caduta e rotta. Raccontò, tra le lacrime, che aveva visto il liquido prezioso e amato scorrere e sparire bevuto dalla terra permeabile e ghiotta. Il meschino non si saziava di gemiti e lamenti.

“E’ il vino, è il vino che manca”, ripeteva sconsolato. “Dovevo berlo subito!”

“Se vuoi, vado a strizzare dell’uva per te”, cercai di consolarlo

“Sì, vai di corsa, a spremere l’anima dell’uva-rispose l’amico - perché se non bevo entro quattro minuti almeno un goccio, divento pazzo!”. E invocava Dioniso, colmo di pena.

“Più di così?” pensai, senza dirglielo. E corsi al bar per comprargli una bottiglia.

Una volta gli diedi il consiglio di non dare troppo a vedere il suo vizio: a Padova un bidello dell’Università, cui avevo chiesto notizie di lui, mi aveva detto che quella mattina non l’aveva visto: probabilmente era andato nell’osteria contigua al Liviano per bere un goccetto. Il custode aveva parlato con un tono ambiguo: misto di scherzo e riprovazione.

L’amico mi guardò trasecolato, poi disse: “ma quale vizio? Di quale bidello e custode vai cianciando, tu fighetto da Pesaro che giri con una macchina hitleriana!

Si chiama Giovanni, è un mio amico, e tante volte andiamo a bere un’ombretta in compagnia! Niente di male!”.

Replicai solo dicendo: “in effetti che male c’è? anche io mi chiamo Giovanni!”, poi tacqui, siccome le sue parole mi parvero ebbre.

Ricordavo questi episodi ridendo tra me, senza pietà per l’amico che vorrà perdonarmi. E’ uno dei pochissimi sopravvissulti al conclave del 1966. Allora contribuì a raddrizzarmi  la vita.  Talvolta ci sentiamo ancora. Quando prendemmo  confidenza gli dicevo che bevendo così non sarebbe arrivato a Natale. “Mi son  rasegna' ”, rispondeva.Passati più di cinquanta Natali, sono molto  contento di essermi sbagliato.


giovanni ghiselli 

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