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Jyväskylä |
Se conoscere è ricordare quanto abbiamo imparato in
altre vite, come afferma Platone[1] è vero, anche amare è legato alla reminiscenza di qualche
persona antica, o, viceversa, alla dimenticanza di qualche situazione penosa.
Ho amato un’Elena che mi ha fatto venire in mente
un’altra Elena, e mi ha ricordato la mamma, e mi ha fatto pure scordare il dolore
delle frustrazioni passate.
Questa nuova Helena, la finnica, dunque mi disse di
avere studiato lettere e che le insegnava da un anno in una scuola di Yväskylä.
Avrebbe compiuto ventisei anni in settembre: “ha dieci mesi meno di me”,
pensai.
Le piaceva molto imparare e insegnare. “Dum
docemus, discimus”, le dissi per impressionarla favorevolmente. Sorrise e
rispose: “videlicet”, forse non senza una punta di ironia.
All’epoca la gente di educazione accademica usava
parole latine come segno di appartenenza a un gruppo eletto. Adesso,
quale laudator temporis acti me puero, mi dolgo del fatto che gli
ignoranti blaterino storpiando l’italiano mescidato con una lingua franca
spacciata per inglese.
Hanno la mente distorta e l’anima malata, poiché
parlare male fa male all’anima[2].
Ma torniamo ai tempi belli, torniamo alla vita.
Helena amava la natura e la vita.
La propria e quella degli altri. Questo è il predicato
di nobiltà più nobile e raro.
Si faceva conoscere parlando con precisione, senza
parole di troppo, senza luoghi comuni, senza inciampare mai in quanto diceva.
Lo faceva con semplicità elegante, non usava la micrologica e pur
prolungatissima ciancia delle persone vuote, scontente, spesso pure cattive.
La trovavo simile e complementare alla mia persona:
mi suggeriva e rappresentava l’idea della donna in grado di adoperare la
propria indole e intelligenza, capace di non ripetere gli stereotipi rancidi
continuamente impiegati dagli imbecilli, gli ottusi ripetitori della pubblicità
che, come Circe,[3]:
trasforma gli uomini, quelli che hanno l’apparenza di uomini, nei maiali veri
che sono. Anzi, i maiali veri in confronto a certi cialtroni panciuti fanno la
loro porca figura.
Helena mi piaceva e mi andava a genio quanto a
ciascuno dovrebbe piacere il proprio destino. Quel fato dovevo ancora
conquistarlo però.
Infatti io a lei, nel primo approccio, non piacqui
altrettanto: da come mi guardava e ascoltava, capivo che non l’avevo colpita
con l’aspetto né con altro. L’indifferenza con cui mi guardava non cambiava la
bella natura del suo incarnato e della sua persona. Magari rendeva sbiadito il
mio personaggio..
A un tratto credetti che il suo sguardo annoiato,
indifferente, volesse significarmi: “perché non te ne vai? Tu, trattenendomi
qui con te, mi fai perdere tempo!”.
Eppure mi trovavo nella mia forma migliore: snello e
abbronzato pur dopo il servizio militare. Il fatto è che non trasmettevo forza
né sicurezza con il mio sguardo: in faccia avevo il colorito del sole, ma non
il suo sangue[4];
il mio parlare non era abbastanza intenso e preciso, non aveva densità né
bellezza, anche per via dell’inglese che conoscevo meno bene di lei. Non
trovavo la forza di esprimere il meglio di me: la mia diversità dalla gente
comune priva di logos e di pathos.
Dovevo avere il coraggio di affondare lo sguardo, come
un palombaro[5],
dentro la mente per ricavarne qualche pensiero profondo, luminoso e semplice,
privo di affettazione, degno di quella donna, e di me.
Lei però non mi
incoraggiava. Sentivo che stavo assumendo espressioni e atti più imbarazzati
che brillanti. Le raccontavo soltanto con quale mezzo, per quale via, e con
chi, ero arrivato il giorno prima dall’Italia, e che cosa contavo di fare a
Debrecen il mese seguente: molto esercizio fisico, qualche lettura, e, magari,
se il destino mi assecondava, potevo fondare un’intesa proficua con una donna
di valore, se tale pregiata signora si lasciava conoscere e mi accoglieva. Non
ebbi il coraggio di dirle: “con te o con nessun’altra; senza di te la mia crescita
umana rimarrà bloccata per sempre: il destino mi ricaccerà nello squallore
dell’insignificanza”. Non glielo dissi, ma pensavo proprio in questa maniera
tragica.
Ancora però non avevo compreso che per fare qualcosa
bisogna essere qualcosa, e, a dire il vero, in quel tempo
remoto non ero un granché, quindi non potevo fare niente di egregio. Sapevo
commettere qualche bravata giovanile e mi presentavo con un aspetto e uno stile
forse non del tutto volgare. Conoscevo già alcune belle sentenze di autori bravi
e le snocciolavo perché suonavano bene e pensavo mi facessero fare bella
figura. Helena mi fece capire che no era abbastanza. Dovevo diventare buono,
generoso leale.
La scuola di quella donna, la mia professoressa
dell’amore, l’ipostasi stessa dell’amore celeste, mi ha insegnato sulla vita
più del sapere succhiato dai libri nei venti anni precedenti.
Lascio il giudizio a te, lettore. Più avanti vedrai.
In quel momento capii solo che non potevo averla
siccome sulla bilancia del fato non ero in grado di mettere un contrappeso mio
del valore di lei. Dovevo scavare dentro di me e trovarlo. Oppure piangere la
bella creatura perduta prima ancora di averne tratto i benefici che avrebbero
potuto dare alla mia vita una svolta verso le cose grandi e belle cui mi sentivo
portato. E forse, se non mi avesse amato, sarei morto a[wro", anzi tempo. “Nel caso, mi sia lieve il suol”, pensai,
tragicomicamente.
Oppure potevo consolarmi con un’altra donna, più
nobile no, perciò, magari, meno impervia e inaccessibile. “E lei ne troverà un
altro forse più fortunato, certo non più innamorato di me”, pensai.
Ma prima di cedere e di cercare uno straccetto di
ganza tra le creature insignificanti che andavano e venivano, volli provare
ancora a conquistare il mio destino che vedevo incarnato in quella ceatura
superbamente meravigliosa. Mi preparavo delle frasi significative per
significarle appunto che non ero una persona comune
“ Tu e io separati siamo ciascuno soltanto
un suvmbolon,
la metà di un segno di riconoscimento. Dobbiamo costruire l’interezza fatta da
entrambi. Saremo un androgino perfetto di pura origine lunare.
Devo gettare un ponte vertiginoso tra il tuo
spirito e il mio. Spero che la vertigine ci faccia cadere nello stesso letto,
dopo esserci abbracciati durante il volo”, pensai preparandomi come uno
scolaro.
Poi: “Sarà l’abbraccio voluttuoso di due condannati a
morire, non posso negarlo, come accade a tutte le altre creature mortali.
Eppure, se questo amplesso avverrà, rimarremo uniti
per sempre: attraverseremo insieme le onde del tartareo Acheronte: nemmeno l’orrendo
traghettatore potrà separarci agitando implacabile il terribile remo.
Neanche Minosse che, seduto sul prato degli
asfodeli presso il triodo dal quale si dipartono vie diverse, emette sentenze
inappellabili, nemmeno questo giudice supremo potrà obbligarci a prendere
cammini divergenti: se tu dovrai imboccare la strada caliginosa del Tartaro, io
ti seguirò, anche se avessi la possibilità di dirigermi all’isola dei beati
piena di luce. Senza di
te, in nessun luogo”. Questo pensai ed ero pazzo, ma
di una pazzia più saggia della saggezza dei più.
Di una pazzia che non è alienazione meschina e volgare
ma è la divina manìa dalla quale derivano agli uomini i beni più grandi.
giovanni ghiselli
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[1] Menone (81d)
[2] Di nuovo
Platone: Fedone: "euj ga; r i[sqi (…) a[riste Krivtwn, to;
mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti
ejmpoiei' tai'" yucai'""
(115 e) , sappi bene (…) ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una
stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
[3] hJ
suw`n morfwvtria-Kivrkh, Euripde, Troiane, 437-438.
[4] Cfr. il faraone
Amenhotep (Amenophi IV) nel romanzo di T. Mann Giuseppe e i suoi
fratelli: “Guarda qui!” disse a Giuseppe. “Avvicinati e guarda!” E
scostando la batista dall’esile braccio gli mostrò le vene azzurre nella parte
interna dell’avambraccio. “Questo è il sangue del Sole!” Giuseppe il
nutritore (IV volume), p. 204. Anche Medea ha sangue
del sole.
[5] Cfr.
Eschilo, Supplici 407 divkhn kolumbhth`ro~.
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