domenica 25 luglio 2021

La storia di Elena Sarjantola. X capitolo. Il “ricevimento del rettore”

Dopo la festa della conoscenza, per due giorni interi non la rividi, né la sentii, ma non smisi di cercarla con gli occhi, con le orecchie e perfino con il naso, ovunque mi aggirassi, pensandola spesso, quasi sempre: sul prato, nel grande bosco, in piscina dove nuotavo di giorno, allo stadio dove correvo a mezzogiorno e al tramonto per rendere appetitosi il desinare, la cena, e dopo tutto anche me stesso a quella donna, poi la pensavo di notte quando vagavo da solo per l’oscurità dei sentieri della grande foresta dove tutto era santo oramai, e la mattina seguente dentro l’università, durante gli intervalli tra le lezioni, come facevo nei corridoi del liceo Mamiani di Pesaro quando, diciassettenne, ero innamorato di una fanese bionda.

Un amore mai contraccambiato, una triste smania da adolescente. L’insuccesso di allora si rivelò con il senno del poi, una fortuna grande.
La fortuna, come la sventura, infatti è versatile.
I bersagli mancati non sono adatti a noi, e il successo vero è fallirli.

“Questa volta, però, guai a te se manchi il bersaglio perfetto”, mi dissi.
Mi venne in mente quanto dice Socrate nel Fedone platonico: l’uomo quando indaga intorno a sé e su altre cose deve cercare il meglio e la perfezione, ma durante questa ricerca egli conosce anche il peggio perché la scienza  che li riguarda è la stessa (97d).
 Altrettanto si può dire della ricerca delle donne.  
Pure nella mensa cercavo Elena, tra lo schioccare dei piatti e il vociare strano delle inservienti. Non la incontravo, ma l’avevo in mente, e sentivo il bisogno ansioso di vederla, di parlarle ancora, di ascoltarla, per fare l’amore con lei e formare un modello dentro di me, un paradigma di vita amorosa trionfante. Volevo entrare in comunione con quella donna per diventare migliore. Inaccessa tentare era il mio imperativo. Amare quella donna per un mese valeva più di quanto avrei potuto apprendere dai libri negli anni seguenti: da lei avrei  imparato di più.
Amarla valeva più un qualche sapere - sofo;n ti -  appreso leggendo. L’avevo capito già allora. Oggi, passati cinquanta anni e un numero non inferiore di
di conoscimenti se non tutti meravigliosi, per lo meno proficui,  do maggiore importannza allo studio perché quando corteggio le donne, otto su dieci mi rifiutano e poco manca che dicano a me  quello che gli spettri a Riccardo III: despair and die, dispera e muori, più volte. Penso che studiando e facendo conferenze belle morirò più tardi e in ogni caso non dispero.

Torniamo al luglio del 1971 però.
Mi avevano colpito gli sguardi di lei e i suoi atteggiamenti appropriati alle parole che diceva, piene di senso e non banali. Avevo invece dei dubbi sullo stile mio, sull’eloquio inadeguato alla sua bella persona, e cercavo un’altra occasione per muovermi e parlare meglio: una sorta di esame di riparazione nella scuola dell’amore.
Parlare male fa male all’anima, avevo letto in Platone[1]; con Elena avevo avuto la prova che le parole insignificanti danneggiano anche l’amore.
 
 Alla donna che mi aveva messo nella fiamma di Eros per liberarmi dal sovrappeso di scorie e farmi diventare quello che sono davvero,   dovevo significare con lingua non inerte ma diritta come la verità e la virtù, con parole plastiche, dense, che non ero un uomo volgare, nemmeno banale: dovevo accendere scintille d’amore anche dentro di lei, dirle che amavo la vita, credevo nell’educazione, volevo sapere di letteratura, di filosofia, di arte, di cinema, la più moderna e progressiva delle arti[1]; che avevo voglia di fare sport con metodo, per mantenere la migliore delle forme a me possibili. Questo e altro potevo realizzare, pensavo, se quella donna bella e fine mi avesse aiutato.
Dovevo incontrarla di nuovo per tentare ancora la sorte: dopo la sera della conoscenza, la certezza di cambiare in meglio la vita mia non c’era, ma “Cloto filando fa girare ogni fato- ripetei[2]- speranzoso e devoto.
 E se lei continuerà a non incoraggiarmi-conclusi- insisterò con dieci bocche, dieci lingue per bocca e con voce di miele, o di ferro[3]”.
 
 Finché, due giorni più tardi, la vidi di nuovo seduta nel Megaron, la grande sala centrale dell’Università. Parlava con una bionda. Eravamo al “ricevimento del Rettore”: la festa pomeridiana. Nel mezzo della sala c’era un tavolo grande coperto di piatti con dolci, e irto di bottiglie con liquidi vari, per lo più alcolici. Mi sentivo meno insicuro che al primo incontro serale: questa volta ero entrato sapendo già chi cercavo e che cosa volevo, insomma ero preparato;  inoltre, nel pomeriggio estivo, il salone veniva irradiato da un sole ancora alto attraverso il lucernario del soffitto, e quando sono evidenziato e rallegrato da una fonte luminosa, massime se naturale, mi sento più bello e meno insicuro che nella penombra, più capace di comunicare simpatia a chi mi piace perché provo una simpatia grande per la fiamma del dio che nutre la vita e la riempie di colori vivaci. Sentivo rifulgere dentro di me la forza santa del primo tra tutti gli dèi, come lo chiama il primo fra tutti i poeti, il pio Sofocle nell’Edipo re, il libro che mi ha formato più di ogni altro[4].
 Il liquore solare potenziava la mia bellezza, qualunque essa fosse, e la mia intelligenza.
L’eroica luce del sole illumina le opere buone dei buoni e scopre gli obbrobri dei malvagi che infatti, come denuncia l’apostolo giovane, preferiscono le tenebre.
 
Pregai dunque il dio di attribuirmi una vita piena della sua luce e di darmi la fulgida donna che amavo. Mi preparavo a incontrarla, a parlarle, e pensavo che anche le mie parole dovevano essere piene di luce e avere la forza della bellezza, della persuasione. Senza verbosità astratta e insignificante, senza arzigogoli e ghirigori che non dicono nulla, come tanti che avevo sentiti dai noiosi inamabili e infrequentabili. Uomini e donne che si gettano nel fiume della vita come rottami.
A dire tutta la verità, quando vidi il termine fisso dei miei continui pensieri, sentìi il bisogno di farmi coraggio con una palinka all’albicocca, una specie di grappa ungherese, un farmaco per la mia insicurezza: infatti, nonostante la preparazione mentale, la santa luce del sole estivo, e l’ottimismo di fondo, io con la bella donna che, probabilmente annoiata, dopo due soli balli con me, era tornata direttamente al tavolo suo, ero svantaggiato in partenza. Come nella vita del resto. Stavo risalendo la china lunga ed erta, uno Stelvio dalla parte di Prato da fare in bicicletta in non più di due ore[5].
Sono venticinque chilometri di salita ora più dura, ora meno.
 Dovevo provarci di nuovo.
Dopo avere bevuto, non a dismisura, e averla guardata con una certa insistenza, non proprio con fissità, ma in modo piuttosto tenace, senza del resto venirne contraccambiato, se non di sfuggita, mi avvicinai a lei mentre beveva una birra, con lentezza, e parlava con voce bassa, adagio, alla vicina, verosimilmente un’altra finnica, bionda però, e non bella, anzi era piuttosto brutta: aveva le gote rossicce e lo sguardo stralunato.
Metteva in risalto la pelle bianca come l’avorio tagliato, i capelli nerissimi e il viso di Elena, espressivo di tutte le cose buone del mondo.
 
giovanni ghiselli
 
 
 
 
 


[1] . Lo afferma Socrate  nel Fedone :" euj ga;r i[sqia[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[1], ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

 

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